Quando i corpi dei morti continuano a vivere insieme a noi, di Davide Sisto
Secondo Hans Belting, noto storico dell’arte tedesco, la ragione principale per cui poniamo sulla tomba dei nostri cari una loro fotografia – meglio, la migliore fotografia a nostra disposizione – è la seguente: fornire di un “corpo immortale” la persona deceduta, di modo che i vivi dimentichino in tutta fretta il processo di lenta decomposizione a cui si sottopone il suo “corpo mortale”, oramai privo di vita, dentro la tomba. Quella fotografia, in altre parole, assorbe in sé l’esistenza – perduta – della persona morta, la quale non ne “sente” più il bisogno una volta fermatosi il suo cuore, e ci permette di mentire dolcemente a noi stessi: la nostra mente associa infatti, per sempre, a chi non è più con noi un’immagine serena e solare, piena di vita, tenendo alla larga il pensiero dolorosissimo di quel corpo familiare che, lontano dal nostro sguardo, non può che disfarsi progressivamente. Come, d’altronde, richiede la natura stessa, trasformando il nostro bel fisico in un rifiuto organico. Il ragionamento, lo sapete bene tutti, è di questo tipo: già è lancinante la sofferenza per il distacco, figurarsi cosa vorrebbe dire concentrare la propria attenzione sui processi organici che hanno luogo all’interno della bara.
Molteplici sono le riflessioni che si possono fare, a partire da questa osservazione di Belting, sul nostro rapporto con la morte e, in particolare, con il corpo del morto, soprattutto tenendo conto del ruolo particolarmente complesso che svolge la corporeità in Occidente fin dagli albori dei tempi. Un tema delicato di cui, in futuro, torneremo a parlare su questo blog.
Ciò che, invece, ora mi interessa è porre l’attenzione su un rituale funebre radicalmente opposto a quello a cui siamo abituati: la cerimonia Ma’nene degli abitanti di Tana Toraja, sull’isola indonesiana di Sulawesi, che può essere tradotta – in modo più o meno corretto – come “la cerimonia della pulizia dei cadaveri”. Ogni tre anni o poco più, a seconda dei villaggi, gli abitanti (sia adulti sia bambini) costruiscono delle scale con il bambù per accedere alle tombe dei loro cari, spesso conservate anche a quindici metri da terra, all’interno di cavità rocciose. Le prelevano, le aprono, sopportano – a fatica – l’odore certo non piacevole che proviene dal loro interno e tirano fuori i cadaveri, ben conservati e mummificati grazie a una particolare soluzione di acqua e formaldeide. Giunti a questo punto, puliscono e lavano con attenzione i corpi, rivestendoli quindi con abiti nuovi, sostituendo i loro occhiali, là dove vi sia la necessità di farlo, e riparando attentamente le loro bare. Quando queste sono eccessivamente marce, le sostituiscono; quando, invece, sono i cadaveri a non essere rimasti intatti, i familiari li avvolgono semplicemente in un telo bianco. Spesso, prima di riseppellirli, li riportano per un po’ di tempo a casa e li mettono in posa, con i loro abiti nuovi e ben pettinati, per farsi fotografare insieme. I vivi con i morti. Una volta consumato il rituale, le tombe vengono nuovamente sigillate e ricollocate all’interno delle cavità rocciose. Vengono sacrificati maiali e bufali indiani per il pranzo e, in seguito, ha luogo una forma tradizionale di combattimento. In attesa di ripetere la cerimonia, trascorsi tre nuovi anni, al punto che gli abitanti di Tana Toraja mettono da parte costantemente le loro ricchezze per potersi permettere il rinnovo del rituale.
Cosa ci insegna la cerimonia Ma’nene? Innanzitutto, che per gli abitanti di Tana Toraja il corpo del defunto non “svanisce” definitivamente, una volta chiusa la bara e sotterrata (va, tra l’altro, specificato che spesso i cadaveri non vengono immediatamente seppelliti ma rimangono per qualche settimana nelle case dei parenti). Ogni tre anni questo corpo ritorna, in qualche modo, a “vivere” in mezzo alle persone che lo hanno amato quando il suo cuore batteva. Non c’è, in altri termini, un muro che separa radicalmente la vita dalla morte, la quale non è intesa come un evento di rottura definitiva. Vi è una continuazione dell’esistenza spirituale tra il prima e il poi, per cui il confine tra vivere e morire è più sfumato e il distacco è meno traumatico rispetto alle tradizioni occidentali. I morti continuano a vivere, perché il decesso è solo un momento di passaggio, da cui nasce una nuova forma di legame con le persone. La morte è sottile sottile, una sfumatura della vita. Come dimostrano simbolicamente le fotografie che immortalano i bambini, a loro totale agio, con i cadaveri dei nonni o dei genitori, vestiti in modo elegante e ricercato.
Provate a ripensare alle osservazioni di Belting: noi proviamo un senso di angoscia così profondo nel vedere con i nostri occhi un corpo senza vita, da non volerlo nemmeno immaginare con la mente. Quasi tutte le pagine giornalistiche che descrivono la cerimonia Ma’nene avvertono prima i lettori: state attenti, il servizio contiene immagini che possono disturbare la vostra sensibilità. Vedere con gli occhi quei cadaveri riesumati e rivestiti, in mezzo a bambini e adulti indonesiani assolutamente a loro agio, per noi è tanto assurdo quanto disturbante.
Credo che abbiamo molto da imparare su come affrontare la morte e su come superare certi traumi legati al pensiero dei corpi che gradualmente si dissolvono. Certo, le nostre tradizioni sono differenti e si rischia di banalizzare l’interpretazione di questi rituali, se ci limitiamo a osservarli dal nostro specifico punto di vista occidentale. Tuttavia, non ritenete anche voi, come me, che questo modo di vivere il corpo del defunto sia tutt’altro che macabro e abbia, invece, un significato educativo e spirituale veramente profondo? Cosa ne pensate?