Death information & Death education? di Nicola Ferrari
Riceviamo e pubblichiamo con piacere questa riflessione di Nicola Ferrari, che da molti anni, con l’associazione Maria Bianchi di Mantova si occupa di sostenere le persone in lutto.
Cos’hanno in comune, nell’ambito della Death education, eventi quali convegni, lectio magistralis, laboratori, tavole rotonde, spettacoli teatrali, concerti, reading di poesie, mostre di fotografie e pittura, rassegne letterarie, seminari, cineforum e poi passeggiate tra i cimiteri, cene in nero, escursioni di gruppo all’imbrunire, Death café, gala, dialoghi con autori, visite guidate, letture sceniche, performance, installazioni visuali e sonore, webinar, podcast, libri, video caricati in rete, live streaming, incontri sui social media, blog, forum e senza dubbio anche altro?
L’idea che educare corrisponda a informare, istruire, condividere esperienze, pensieri e vissuti; detto in altre parole: la Death education si basa sull’idea che aumentare le conoscenze specifiche su questo aspetto della vita, e narrarsi gli uni con gli altri, significhi educarsi (e forse prepararsi) alla morte.
Che cosa significhi nel concreto educarsi alla morte è un quesito complesso, che pone a sua volta molti altri interrogativi (cfr. in questo blog il contributo Death education? di Marina Sozzi, che li presenta in dettaglio). Ma, indipendentemente da questi problemi, che includiamo nell’ambito più vasto della tanatologia, nel significato della parola ‘educazione’ è connaturato, e continuamente ricercato, il cambiamento della persona coinvolta.
Non esiste autentica attività educativa che non preveda, come fine ultimo, la possibilità di una trasformazione, di uno sviluppo, in virtù del quale le potenzialità del soggetto vengano, nell’ormai classica e accettata analisi del termine, tirate fuori, estese, dilatate. È proprio per questo che trovo il termine Death education, declinato poi nelle varie attività citate all’inizio, piuttosto inappropriato: non basta, purtroppo, ascoltare persone esperte sul tema, che con le loro proposte fanno sorgere in noi nuove considerazioni, non è decisivo aumentare la conoscenza su aspetti psicologici, sociali, spirituali che non si possedevano prima, o confrontarsi e dialogare sui temi della mortalità, del lutto, del fine vita, così come non è sufficiente vivere emozioni ed esperienze individuali o in gruppo appositamente predisposte.
Il tema della morte, nostra e altrui, del lutto, della finitezza e tanto altro, non è una questione satellitare, non è trattabile come altri temi o situazioni della vita che ci riguardano ma in modo più tangente, rispetto ai quali le iniziative culturali citate sopra sarebbero strumenti utili e sufficienti per farci un’idea e prendere posizione.
Ciò non significa che gli incontri pubblici siano inutili: proporli significa coinvolgere e appassionare persone, ma si tratta in questi casi di Death information, non di Death education cioè di occasioni per avvicinarsi, per introdursi, per prepararsi a un cammino di ben altro spessore. Perché ognuno di noi possa vivere un percorso educativo rispetto alla morte occorre che gli accada altro, di più, di diverso rispetto al solo ascolto, lettura, confronto, dibattito.
Magari potessimo arrivare a fare i conti con la nostra fine, con la perdita di chi amiamo, con l’annuncio o il periodo di una grave malattia, così come vorremmo che accadesse, magari con quella forza, serenità, coraggio, consapevolezza che stiamo cercando e che costituiscono le ragioni per cui partecipiamo ad eventi, per cui leggiamo libri sul tema, eccetera.
Death information è quindi il termine secondo me più appropriato, corretto ed efficace da utilizzare, ben sapendo che una parola è molto più di una parola: stiamo parlando di ciò che è necessario per avvicinarsi al tema della morte, per potersi accostare con un primo livello di coinvolgimento emotivo, ampliando la nostra conoscenza, cominciando a conoscere altre persone con la loro storia, la loro ricchezza e la loro fragilità.
La Death education si pone invece al livello seguente, non per valore o qualità ma perché offre un percorso successivo che permette (o almeno tenta) di attivare un cambiamento dentro se stessi rispetto alla modalità di affrontare la questione cardine della morte. E questo percorso, che si può declinare in modi diversi, ha però delle caratteristiche ineliminabili che lo contraddistinguono e che si distinguono dalla prima fase di Death information:
– una durata temporale significativa, a differenza del momento puntuale da dedicare a un convegno, un evento, un incontro;
– il totale coinvolgimento della persona, che non si pone quindi solo in una modalità ricettivo-passiva, di mero ascolto;
– la disponibilità a mettersi costantemente in relazione con la propria esperienza di vita;
– la concentrazione sui cambiamenti concreti da attivare come conseguenza di uno sviluppo sulle questioni che vengono affrontate;
– la necessità di confrontarsi nel tempo quando, come può accadere, ci si trovi ad affrontare la morte reale, propria o altrui.
Non è semplice stabilire come realizzare ciò che definisco Death education; come strutturare i percorsi per indurre una più profonda consapevolezza, che integri e specifichi, la precedente; come affrontare i limiti intrinseci in qualunque cammino; come valutare gli esiti. Queste difficoltà non cambiano, a mio avviso, la questione di fondo: è necessaria una nuova espressione (Death information) per definire ciò che oggi facciamo intorno al tema della morte.
Cosa ne pensate? Il termine Death information vi sembra più appropriato? Cosa fate per accostarvi al tema della morte, e cosa ne ricavate? Grazie, come sempre, per il vostro contributo.
Caro Nicola, come ben sai non sono così convinto di quello che scrivi. Penso che la via dell’aut aut non sia percorribile. Vi sono persone che certamente hanno bisogno di qualcosa di più di un incontro pubblico. Ma ci sono anche tante persone che, non sentendo il bisogno di seguire percorsi strutturati, riescono a ricavare dai tanti incontri pubblici e dalle esposizioni social il materiale necessario per lavorare su di sé. A mio avviso è la somma delle tante diverse attività a creare la cornice per la Death Education. Secondo me, ripeto, la questione è più articolata e complessa. Ma avremo modo di parlarne, come abbiamo provato a pensare insieme. Grazie per il tuo contributo!
Grazie mille Davide di questa disponibilità, spero davvero troveremo l’occasione per confrontarci ovviamente insieme anche ad altri. Sottolineo però un aspetto, che forse non sono riuscito a spiegare correttamente, e che è presente non a caso anche nel titolo: si tratta per me non di sostituire ma di aggiungere un termine a quello già esistente e quindi fare nella pratica proprio ciò che scrivi rispetto ai differenti bisogni delle persone. Quindi anch’io sono assolutamente dell’idea che non è questione di aut aut ma di creare diverse attività per diverse esigenze che però non siano tutte presentate e quindi vissute come simil perché non lo sono,
Concordo, soprattutto tenendo conto delle “diverse esigenze” di ciascuno e anche tenuto conto che – di fatto – ogni espressione pubblica, da quella filosofica a quella artistica, ha sempre formato oltre che informato. Questo va ben sottolineato. Un abbraccio!
Caro Nicola , condivido quello che dici , l’informazione serve solo ad affrontare il tema ed è comunque un primo passo importante per un argomento come questo , ma l’educazione è quello successivo, non so come potrebbe avvenire un cambiamento, e per quanto mi riguarda , dopo anni di formazione come volontaria in cure palliative , seminari sulla morte e il morire , so che ho ancora una paura fottuta della morte. Tu mi facesti riflettere qualche anno fa sulle motivazioni del mio volontariato , andare a fondo, oltre, come tu sai fare ed io lo feci. capii che Volevo imparare dai malati di fine vita come si affronta la morte .
Sarebbe importante Anna Lisa, cominciare già a ‘preannunciare’ il cambiamento, come scrivi. Se c’è convinzione e consapevolezza, poi le modalità si trovano insieme approfondendo in momenti di scambio allargato gli aspetti concreti.
Concordo al 1000% con la tesi dell’articolo e penso che informare piuttosto che educare sia molto più corretto.E facendo volontariato mi accorgo molto della differenza anche su me stesso.
L’esperienza diretta su se stesso conferisce a ciò che sottolinea un valore aggiunto assolutamente significativo perché si tratta non di essere d’accordo o meno su un’idea, ma di sperimentare sulla propria pelle una differenza e riconoscerla.
Come ho già cercato di scrivere, ci sono due livelli: quello della Death information e quella della Death education: ognuno ha le sue caratteristiche e specificità che vanno riconosciute e applicate nella pratica.
Caro Nicola. Trovo sempre molto interessanti i tuoi percorsi sulla elaborazione del lutto. Questo spunto di analisi mi trova in difficoltà perché non comprendo quale possa essere l’approfondimento che proponi sul tema della morte. La mia unica certezza nasce dalle testimonianze di molti miei malati con patologie inguaribili che vedono la morte come problema lontano sia perché troppo impegnati a dare un senso alla vita che rimane e sia perché la morte si accetta in maniera proporzionale al proprio credo spirituale. La fede aiuta a considerare la morte un momento di passaggio davanti alla pace assoluta. Ed io mi allineo a loro
In questo caso non mi riferisco nello specifico sui temi del lutto ma più in generale a ciò che, direttamente o indirettamente, si collega alla morte. L’approfondimento di cui scrivi è, in estrema sintesi, l’offerta di momenti di incontro, tra cui ad esempio relativi anche alla dimensione spirituale, in cui è chiaro sin dall’inizio quando si propone dell’informazione o invece dell’educazione, con tutte le implicazioni organizzative, di gestione, contenutistiche e metodologiche.
L’arte è una possibilità di Death Education, credo. È trasformativa. Non trasferisce informazioni ma produce esperienza emotiva. Per questo ripongo le massime aspettative del nostro progetto nel laboratorio di Mario Biagini Proprio ieri sera il nostro gruppo di esperti di è riunito su Arte e Morte. Costanza Lanzara che pensi dell’articolo sopra? Ce lo diremo. Grazie degli spunti sempre interessanti Marina Sozzi
Ho vissuto un’esperienza di Arte Terapia 7 anni fa in seguito ad un lutto importante. E’ stato estremamente utile e appagante. Il docente molto competente ed accogliente. Sono anche io convinta che attraverso l’arte, si possano processare eventi traumatici e sviluppare nuove strategie e risorse per elaborare meglio i vissuti, grazie per il vostro lavoro.
Anche rispetto all’arte, riprendendo le testimonianze di Elisa e Antonella, è possibile sperimentare sia un percorso di Death Education, dove appunto si produce un’esperienza che va ad innescarsi nelle dinamiche personali di lutto sia di Death Information, quando si presentano ad esempio tematiche quali ‘La morte nella storia dell’arte’, ‘Le rappresentazioni delle perdita’ riferite ad un particolare autore e tanto altro di simile.
Credo che le riflessioni di Nicola servano soprattutto a noi addetti ai lavori per mantenere un atteggiamento attivo sul nostro modo di intendere l’argomento morte, che nella sua complessità e molteplicità è quanto mai arduo da affrontare.
Posso esprimermi in base all’esperienza di una vita in reparti e corridoi di strutture pubbliche, e mi sento di condividere che informare non è educare. La differenza sta nel progetto, che può essere di vita per il singolo, oppure operativo per un servizio.
Ottimo parlare di morte, e bisogna continuare a farlo in ogni luogo più o meno virtuale, ma arriva il momento di alzarsi dalla sedia (d’accordo o meno) e di agire sul campo: su se stessi, in caso di coinvolgimento diretto, altrimenti nessuna parola, per quanto appropriata o giusta o come la vogliamo chiamare, riuscirà a germogliare e a produrre un cambiamento interiore; sui servizi che continuano a bypassare il tema salvo singole buone volontà, seppure nei convegni tra operatori sanitari e sociali si ripeta come un mantra l’importanza della comunicazione.
Sento troppo spesso, in chi si occupa di aiuto, la convinzione che la parola abbia proprietà magiche: abbiamo la certezza che arrivino a destinazione nel modo in cui crediamo?
Dunque potrebbe essere un problema globale di ascolto con se stessi e con l’altro, ancor prima di mettersi a parlare di morte?
E spunta il nodo della Formazione, che sia personale o di un gruppo, che è poi Educazione e richiede tempo ed energie.
Ben vengano articoli del genere e grazie di cuore a questo blog che procede tra i ghiacci.
Riflessioni totalmente cor-rispondenti (tanto per restare in tema di parole ‘magiche’).
Domande comprese, che potrebbero essere riprese se da questi confronti si concretizzerà l’idea di un momento più esteso, in presenza o on-line, per affrontare la questione.
mi sento un po’ fuori dal coro perchè più che informare/educare alla morte, sento molto pressante la necessità di riportare l’attenzione alla sacralità della vita. Purtroppo la perdita della consapevolezza del rispetto della sacralità della vita si evidenzia col dare la morte in modo oserei dire automatico, anaffettivo, come nei femminicidi di donne anche in gravidanza oppure nelle guerre che stanno portando lutti in tante parti del mondo, con spesso l’assoluta mancanza di rispetto e dignità del corpo senza più vita. Non so se possa dirsi che esiste ancora un tabù della morte, vista la semplicità, noncuranza con cui la si procura e la si “documenta”…sento di più la perdita del rispetto della sacralità della vita, dell’Altro in quanto Essere. Sono legati i due temi? credo di sì…si può partire dalla morte per restituire sacralità alla vita? non so…grazie
E’ il luogo giusto questo, Luciana, non solo per sentirsi ma per sostare ‘fuori dal coro’; la stessa proposta che qui presento non è di certo comune, anche se, vedendo le risposte di questo blog e di altre persone con cui parlo in questi mesi, si manifesta una crescente disponibilità ad accoglierla e a capire cosa comporta nella pratica.
Credo quindi che anche il tuo approccio abbia bisogno di essere precisamente declinato in concreto per poter capire che cosa implica quando si tratta, come diceva Maurizio in un precedente commento, di ‘alzarsi dalla sedia’ e agire.
Il tema è posto in maniera garbata e convincente, ogni affermazione viene giustificata e si propongono alcuni criteri dirimenti. La logica aut aut credo sia utile, forse anche necessaria, pensando alla prevalente superficialità del pensiero in questo nostro superficialissimo presente. Si deve evitare che il dolore, la sofferenza, la morte diventino oggetto di festival: non va bene, sarebbe pura irriverenza. Mi chiedo però se questa logica dentro/fuori non possa essere sfumata, diventare in qualche modo un continuum. Penso alla mia esperienza di bibliotecario e al concetto, che appartiene alla nostra grammatica professionale, di information literacy. Sembra un tecnicismo, ma richiama al complito essenziale del bibliotecario di supportare la capacità delle persone di essere consapevoli del propri fabbisogni informativi, di saperli cercare, selezionare e valutare e di fare un uso critico dell’informazione. In questo senso sarei per una distinzione ma non per una separazione, come, se posso usare questa metafora, il giorno che trascorre nella notte.
E’molto interessante la Sua visuale da bibliotecario e il paragone che propone; quando ci sono queste correlazioni tra ambiti, professioni e vissuti così diversi che trovano però un filo rosso che li attraversa, personalmente resto affascinato.
‘Supportare la capacità delle persone di essere consapevoli dei propri fabbisogni formativi’ è, detto in altro modo, proprio una delle conseguenze concrete e positive che si vengono a realizzare utilizzando sia il termine Death Information sia Death Education. Ci sarebbero infatti molte ripercussioni nell’organizzazione come nella fruizione di momenti dedicati a questi temi se si usasse la doppia terminologia: non sono entrato nel dettaglio nel mio testo per non appesantire troppo ma Lei Giorgio ha aperto la strada.
Caro Nicola, leggendoti oggi ho la conferma che, nella mia breve esperienza sul campo, ho percorso gli ultimi anni a “informarmi” sulla morte. Sono sempre più convinta che parlare della morte aiuti a vivere meglio la vita. Per questo, a breve, faremo nascere nella mia città un’associazione che sarà protesa proprio a fare questo: informare per rompere un tabù, che come sai al sud è ancora molto insistente. Vorrei solo citarti la mia esperienza personale di un weekend passato con un’amica a Bologna a partecipare attivamente ad un seminario fortemente immersivo sulla morte, condotto da una persona che conoscevo solo per sentito dire ma che a mio avviso si è dimostrata essere davvero speciale (come lo sei stato tu all’inizio del mio percorso perché mi hai dato modo di capire quale strada volevo percorrere). E’ stato per me illuminante e sono ritornata a casa diversa perché in una delle pratiche che abbiamo svolto mi sono sentita letteralmente “morire” e mi sono immedesimata così tanto da comprendere queste tue parole. Un conto è “informarsi” un conto “educarsi”, poiché siamo noi operatori del settore che per primi dovremmo provare certe emozioni. E credo che certe pratiche si dovrebbero fare a prescindere come arricchimento personale, per apprezzare il fortunato premio che ci siamo conquistati in quel viaggio forsennato con fermata nell’ovulo giusto che ci ha fatti esistere. Le parole sono importanti e anche io ho iniziato a cambiare il mio linguaggio per far si che le persone possano avvicinarsi al tema del lutto e della perdita senza paura: anziché chiamarle “commemorazioni”, le mie riunioni mensili le ho definite “celebrazioni della vita”. Il succo è lo stesso ma l’approccio è meno invasivo. Valutando tempo fa, sempre con l’amica che mi ha seguita a Bologna, il successo o meno che certe parole hanno avuto in passato ci è venuto in mente “decrescita felice”: il concetto era bellissimo ma la parola “decrescita” evocava, ed evoca nel sentiment della società capitalista dentro la quale viviamo, qualcosa di negativo. La parola “felice” non è stata abbastanza potente da rovesciare questo sentimento e il concetto non ha ottenuto il successo che i meritava. Concordo anche con le parole di Sisto perché, nelle postazioni di quella giostra impazzita che sono i social, “informare” per alcune persone, alle quali mancano solo le parole, può essere sufficiente o un primo spunto di riflessione per poi approfondire. Ma forse state dicendo la stessa cosa… Grazie come sempre per lo spunto di riflessione.
La tua testimonianza è decisamente efficacia perché diretta, chiara, concreta: tra informarsi ed educarsi, tra Death Information e Death Education non c’è alternativa, priorità, graduatoria di merito o valore. Sono due modalità che presentano ognuna delle caratteristiche precise e rispondono ad esigenze diverse: incidono entrambe sulla vita di chi li sperimenta ma con riverberi e conseguenze non simili. E quello che serve davvero, come tu rimarchi rispetto ai termini ‘celebrazioni della vita’ e ‘decrescita felice’, è usare le parole corrispondenti, precise, che anche solo da una prima lettura, evocano ciò a cui davvero si riferiscono. Io penso che se si accogliessero entrambi i termini, la prima conseguenza immediata sarebbe capire quali eventi e vissuti sul tema si possono riferire al primo o al secondo e questo porterebbe ad una maggiore attenzione in chi propone, una scelta più attenta in chi riceve, un necessario innalzamento di livello contenutistico, organizzativo e formativo.
Caro Nicola, le tue proposte – provocazioni sono sempre intelligenti e meritano di essere ruminate con pazienza, metterle in connessione con le proprie esperienze e la propria cultura.
in questo nostro vivere, in questi anni, mi sento di dover partire dalla riflessione di Helga Novotny, che suggerisce di riconoscere che stiamo vivendo nell’illusione di un “presente esteso” senza fine, che non prevede invecchiamento “come va ragazzi?” scambiato tra novantenni, la morte come incomprensibile, tanto da permetterci, o permettere ad alcuni, meglio direi, di uccidere, perché è sconosciuta. sotto questo punto di vista, la death information acquista un senso. Forse però il primo passo dovrebbe essere prendere in considerazione i personali “preparativi per la partenza”: capire che i nostri pensieri, i nostri gesti, il nostro inclinare verso un modo piuttosto che un altro di relazioni interpersonali prepara a mettere in relazione vita e morte, in uno scenario con-senso. Perciò mi domando: che cosa mette in moto la riflessione sui propri preparativi per la partenza? Che cosa incoraggia a dar loro una forma coerente con il fatto che si morirà, davvero, che forse si morirà coerentemente con come abbiamo vissuto? Forse una life education fatta in modo che permetta di includere la parte ineludibile e anche “succosa”, cioè l’abbandono della veste dell’anima (Ildegarda di Bingen) potrebbe essere il punto di partenza “il più migliore assaissimo” di tutto il nostro ragionare insieme. Grazie per lo stimolo, un abbraccio
Luigi caro, da tanti anni accade sempre così: ogni tua riflessione e reazione la incarni indissolubilmente con la vita di quel momento specifico che stai attraversando. Mi aveva colpito sin dall’inizio, quando c’incontravamo ai convegni: qualunque fosse l’argomento, si agganciava e declinava alla tua esistenza di quel periodo. E così è anche adesso, in questa riflessione.
Il ‘ruminare con pazienza’ in realtà è la tua caratteristica e questo ti permette di essere da un lato molto predisposto ad accogliere novità (eri stato nel 2000 forse il primo a non prendere le distanze per principio quando iniziavo a proporre la Narrazione Guidata) e dall’altro lucido nel cogliere ciò che non ti convince pienamente, proponendo sempre delle motivazioni e soprattutto delle alternative o aggiustamenti.
I tuoi pensieri sul ‘presente esteso’ e ‘life education’ li vedo correlati ai preparativi per la partenza sui quali ultimamente ti concentri e meritano quindi di essere accoliti con le stesse attenzioni che dai tu: spero quindi che ci sarà la possibilità per approfondirli insieme e con altri un un momento pi articolato ed esteso, io per ora li rumino e mi ascolto.
Informare non è educare, asserisce Nicola. E in effetti è così. Etimologicamente e concretamente le due azioni differiscono. Informando si dà forma a idee e pensieri, educando si favorisce lo sviluppo consapevole di una coscienza critica e argomentata nei confronti di qualcosa. Si potrebbe affermare che l’informazione è la parte iniziale di un processo che solo attraverso l’educazione mette radici, diventa parte integrante di noi e della nostra maniera di affrontare la vita. E tuttavia non riesco a scindere completamente le 2 azioni. Vedo l’una come parte indivisibile dell’altra e non sono certa di riuscire a vederne chiaramente i confini. Penso che un ambito così delicato come quello della morte, che tocca nervi scoperti, e che spesso induce alla sua esorcizzazione per contenere il panico, una informazione efficace possa già costituire di per sè un principio educativo, capace di produrre fin dall’inizio riflessioni e comportamenti che possono modificare il confronto con la morte. Sta poi al singolo proseguire questo confronto, non necessariamente con percorsi specificatamente dedicati, ma attraverso i mezzi che gli sono più congeniali. Penso per esempio a film, letture, conversazioni con persone interessate o coinvolte, seminari, etc. E poi ci sono anche percorsi dedicati per chi è pronto per una full immersion, che certamente potranno portare a consapevolezze ben più profonde. Ma non fuggire dal discorso, fermarsi a condividere, diventare consapevoli che toccherà proprio a tutti, noi compresi, lo chiamerei già un buon “diploma” di death education. Chi vorrà poi potrà anche raggiungere la “laurea”. Un carissimo saluto, Nicola. Anche oggi con il tuo articolo ci hai fatto meditare e ora i tuoi lettori sono un po’ più “educati” di prima
Sono dell’idea anch’io che i confini tra informare ed educare siano labili, spesso intersecati e che per alcuni certamente sia più che utile e sufficiente un’informazione ‘efficace, come scrivi.
La prossimità però non è congiunzione: pur essendo vicino e intersecanti, sono due ambiti che a mio avviso non si devono riunire in uno unico. Alcune delle differenze ho provato a declinarle nel breve testo ma sarebbe importante anche con te Daniela entrarci a fondo per cercare di cogliere per un verso le adiacenze per un altro le distanze.
Non avevo pensato a questo diverso significato come proposto da Nicola Ferrari tra Death information e Death education.
Credo che comunque entrambi questi approcci siano da coniugare e da pensare in contiguità e continuità, come intrecci di significato e nel loro significato , come ben descritto dall’ autore.
Nonostante qualche percorso personale svolto su questi temi , passando dall’informativo all’educativo , oggi mi sento ancora in una fase personale e solo iniziale-propedeutica in tema di MORTE e di sua ELABORAZIONE CONSAPEVOLE.
Grazie all’approccio della Narrazione guidata di Nicola Ferrari credo di aver soltanto iniziato un bel lavoro di umiltà e di autoconsapevolezza su quanto sia difficile potersi preparare nel concreto all’evento finale della propria ed ‘altrui FINE. Ho compreso quanto sia importante la scelta delle giuste parole per nominare il dolore, dare cittadinanza al dolore attraverso la sua narrazione quale primo passo che restituisce dignità anche alla persona dolente. Quello che ho compreso che può esistere anche una dimensione generativa del lutto, perché una relazione d’aiuto, nell’elaborare il proprio lutto, la propria perdita, può diventare un vero progetto.
Grandi filosofi ci dicono che è impossibile prepararsi alla morte , che è impossibile pensare alla propria morte .
La nostra cultura nega la morte? Sì , ci sono delle difficoltà ad accettare la morte . Occorre un cambiamento di mentalità nei confronti della morte, la morte fa parte della vita.
Quindi ben vengano tutti questi approcci che possano creare una divulgazione nella condivisione di questi temi e di questi diversi linguaggi attraverso i quali poter distinguere ad esempio la dimensione del far crescere la consapevolezza della morte dalla sua “familiarizzazione” .
Sostengo che il parlare e lo scambiare su queste questioni così importanti , come avviene in questo spazio e in quelli che Nicola Ferrari crea, in maniera instancabile e senza tregua, sia un lavoro culturale ed emotivo di alfabetizzazione che non saprei trovare in altri ambiti e in maniera così competente e autentica. Grazie , Stefania Cavallo
La ‘familiarizzazione’ e la ‘consapevolezza’ sono i due termini che hai usato e che riassumono esattamente, ma con altre parole, quello che sto proponendo; è proprio così: servono ‘diversi linguaggi’ per poter ‘distinguere’, ben sapendo, come sottolineato anche da altri, che un’effettiva separazione non è né possibile né reale. Però si possono condividere alcune grandi differenze, riguardanti ad esempio la durata degli eventi e il coinvolgimento richiesto ai partecipanti, per iniziare a proporre iniziative non più o meno significative ma più o meno aderenti ai bisogni individuali.
Parlare di morte oggi è un atto eroico.
In questo tempo in cui si fa di tutto, ci si inventa qualsiasi artificio per allontanarne sia il pensiero che il momento, trovo che realtà come Maria Bianchi e altre che si adoperano a promuovere un’informazione e, addirittura, un’educazione alla morte, siano salvifiche.
Fatta questa premessa, sono persuasa del fatto che, secondo la mia esperienza di vita che mi ha accostata alla morte infantile e anche alla perdita personale di affetti importanti, l’informazione alla morte privata dell’educazione alla morte, sia come un albero senza radici. L’informazione è importantissima ma l’educazione, ovvero ciò che ti forma dall’interno e nel profondo, è fondamemtale per affrontare la nostra finitezza.
Sono grata a questo sito dedicato al lutto e alle sue sfaccettature, così come sono grata a Nicola che è sempre fonte di ispirazione per nuove riflessioni, confronti e proposte che ci invitano a guardare sempre un po’ più in là. A fare un altro piccolo passo verso quella conoscenza che trasforma, lenisce, guarisce, salva.
L’immagine che utilizzi delle radici e dell’albero sintetizza quelle che sono la maggioranza delle riflessioni giunte sino ad ora:la necessità di dare un sviluppo ulteriore alle informazioni su questo tema che costituiscono un passaggio assolutamente necessario ma che, per essere davvero incisive e fonte di possibili cambiamenti, non bastano perché occorre spostarsi versi ciò che, come scrivi, ‘forma dall’interno e nel profondo’.
Come favorire questo spostamento da Death Information a Death Education, ovviamente solo per chi lo desidera (perché, ripeto volutamente, per alcuni può essere sufficiente solo la fase informativa) è un’altra questione che io vedo non particolarmente complessa da attuare.
Infatti.
Non credo che lo sia. Per almeno due fondamentali motivi: il primo, riguarda l’aver già compiuto il primo grande passo, grazie al prezioso lavoro di chi come te ha creduto in questo progetto, ovvero cercare di demolire il tabù sulla questione morte. Il secondo, strettamente collegato al primo, la realizzazione di momenti di informazione ha fatto sì che si comprendesse quanto indispensabile sia l’essere educati al tema della morte, al significato della nostra esistenza, alla fine della stessa e al valore dei nostri limiti che spesso, rappresentano la nostra vera ricchezza.
Carissimo Nicola, trovo interessante il tuo articolo e con piacere condivido le mie riflessioni.
Concordo con te sul fatto che non tutto ciò che oggi viene presentato come “death education”, coincide realmente con la volontà di educere, ovvero di “tirare fuori”, aspetto, secondo me, determinante quando parliamo della morte.
Questo perché l’esperienza della morte non solo riguarda tutti, dato che tutti prima o poi dobbiamo morire, ma ancor più perché ci appartiene se, come è mia convinzione, siamo tutti già morti e nati più e più volte.
Ritengo tuttavia che molte proposte, pur non essendo un esempio di death education, siano comunque in grado di stimolare le persone a nuove riflessioni, a differenti visioni della realtà, ossia ad incontrare una nuova faccia delle miriadi che compongono, secondo una tradizione nella quale mi riconosco, il cristallo della verità.
Grazie ad un mio innato interesse per il tema della morte, cerco con una certa continuità occasioni che mi permettano di interiorizzare informazioni preziose: il sostegno di persone nell’elaborazione del lutto, l’accompagnamento di altre nella fase terminale della loro vita, la celebrazione della vita di un defunto, l’aiuto nella definizione delle proprie disposizioni anticipate di trattamento, ecc.
Tuttavia le esperienze che davvero hanno rappresentato una reale educazione rispetto al tema della morte e del morire, sono state momenti in cui ho “sentito” che ciò che stavo vivendo allineava delle mie parti, mettendole in vibrazione e permettendomi di raggiungere una frequenza “superiore”. Occasioni, guarda caso, in cui mi sono sempre ri-conosciuta e che hanno portato un cambiamento concreto nella mia vita.
Death education è per me innanzitutto un percorso di preparazione alla mia morte: immaginarla anche nei minimi aspetti, ad esempio decidendo, oggi che sono in salute e in pieno possesso delle mie facoltà, come voglio essere curata e/o accudita qualora mi ammalassi e non fossi più in grado di intendere e volere, cosa voglio che accada al mio corpo, ai miei beni. Come voglio essere ricordata, con quale musica voglio essere salutata, con quale cerimonia. Preparare la mia morte significa guardare a degli aspetti pratici, pensarla mi porta a vivere ogni giorno portando una maggiore attenzione e consapevolezza a ciò che la vita mi mette davanti, alle mie scelte, ai miei desideri. Ho iniziato a guardare la vita dal punto di morte e questo mi ha cambiato la prospettiva.
Accostandomi al tema della morte sento di aver parzialmente svelato ciò che per cultura da troppo tempo si è portati a nascondere e per questo ritengo che ci sia ancora tanto lavoro. Ecco allora che tutte le differenti proposte, che si tratti di death education o death information, sono importanti.
Le conseguenze personali che ti hanno permesso di raggiungere una ‘frequenza superiore’ sono la testimonianza concreta di cosa significhi vivere un cambiamento reale e non solo avvicinarsi o introdursi a questo aspetto così complesso della vita. Ci sono delle proposte che anche se brevi, strutturalmente semplici, che richiedono poco coinvolgimento riescono comunque a produrre movimenti interiori e scelte vere ma dalla mia esperienza sono rare e richiedono anche persone già particolarmente sensibili e attente. In linea di massima, data la complessità della questione, la correlazione con tutti gli aspetti della vita (cognitivo, emotivo spirituale, pratico…) sono necessari percorsi, non singoli eventi.
Sono molto d’accordo con quanto espresso da Nicola che ha anche il merito di aver provocato un interessante dibattito su questo tema.Ritengo sia molto utile riflettere sulla complessità dei vari aspetti connessi alla morte e,ricordo quanto avemmo modo di scrivere,nel 2002 ,nella “Carta di Pontignano “(cfr.www.laborcare.it) “… Al fine di favorire una pedagogia sociale della finitezza della vita è necessario chefamiglia,scuola,comunità religiose e Associazioni si confrontino con le implicazioniaffettive e psicologiche della “perdita” per giungere alla riflessione sulla “naturalezza” dell’ evento morte,basata sui linguaggi,simboli e riti delle diverse culture;…..”
Credo sia un compito che,come operatori e/o volontari in questo ambito, stiamo già svolgendo,ma, come sottolineato da molti degli interventi,sarebbe opportuno trovare un tempo e un luogo per dibattere e confrontarci anche sulle strategie che riteniamo,in base ai nostri studi e alle nostre esperienze,più efficaci per promuovere sia la death information che la death education.
Con questo tuo intervento mi confermi ulteriormente quanto per un verso sia stata colta l’importanza di aggiungere, non sostituire, un (nuovo) termine e per un altro la necessità di trovare un tempo e un luogo, fisico o virtuale, per entrare molto più nel dettaglio con chi è disposto a mettersi in gioco.
Il testo poi che citi lo vivo come decisamente attuale anche se sono passati molti anni dalla stesura iniziale perché fa riferimento a quelle ‘implicazioni’ che hanno bisogno di momenti differenti di approfondimento..
Buongiorno Nicola,
Il termine “Death Information” è inesistente dal punto di vista scientifico o culturale; esiste la “Death Education”, che comprende logicamente anche informazioni. Esprimo la mia perplessità riguardo la tua riflessione, poiché la reputo poco rispettosa nei confronti del lavoro di molte persone che operano da anni in questo ambito.
Cordialità.
Marco Pipitone Presidente di Segnali di Vita Aps
Cara Maria Angela, gentile Marco Pipitone, rispondo io perchè mi sento chiamata in causa, avendo fondato “Si può dire morte”. Mi preme dirvi che per questo blog non esistono temi vietati o intoccabili, e neppure dogmi. Problematizzare un concetto è operazione assolutamente legittima, e trovo che, naturalmente nel rispetto delle diverse posizioni, sia anche utile. Rispetto a molti anni fa, quando ho incominciato ad occuparmi di questi temi, molte cose sono cambiate. E non credo neppure sia più corretto parlare di una negazione della morte, data l’enorme quantità di proposte culturali che il panorama del nostro paese offre. Forse in parte siamo, tutti noi, vincitori. Un nuovo modello di buona morte, e un nuovo modo di pensare alla morte e al morire, si stanno diffondendo, anche se c’è ancora molto da fare. Ma proprio perché, almeno in parte, abbiamo cambiato il panorama, abbiamo anche la responsabilità di non ipostatizzare il nostro pensiero, di continuare a sottoporlo a vaglio critico. Sono sicura che sarete d’accordo con me (quello che fate parla per voi) e che forse vorrete leggere il contributo di Nicola da questo punto di vista. Grazie comunque per i vostri commenti.
Salve Marco, grazie del Suo commento che immagino coincida anche con quello di Sua moglie Maria Angela Gelati. Il fatto che la parola Death Information non esista è un assoluto valore, non un limite: la lingua e quindi la cultura procede da sempre così, con parole nuove che riflettono, sintetizzano e rimandano a ciò che succede nella cultura e nella vita. Basta seguire quello che accade ogni anno quando, ad esempio l’Accademia della Crusca o il dizionario Treccani, inseriscono nuove parole che vengono proposte proprio perché rappresentano la continua evoluzione della lingua e della cultura. La stessa definizione Death education non è ovviamente esistita da sempre, c’è stato un prima e un dopo, come per tantissimi altri termini che ora usiamo. Quindi ben venga la mancanza.
Riguardo invece la questione dell’irrispettoso, immagino (e spero) che si riferisca a come a Lei e Voi arriva questa proposta, non a me che La condivido: mi sembra di intuire che vivete il tutto come qualcosa che in un qualche modo non considera con sufficiente merito quello che invece fate da anni con la Vostra unica rassegna. Inserire invece questa ulteriore differenziazione, cosa che ovviamente è con diritto non farete, sarebbe un’ulteriore innalzamento della qualità a tutto merito di chi le propone.
Con immutato rispetto.
Nicola,
le confido che siamo sempre aperti ai consigli, ma riteniamo che debbano provenire da persone autorevoli. In questo caso, l’unica cosa che possiamo fare è lasciarle credere di aver coniato un nuovo termine da suggerire all’Accademia della Crusca. Potrebbe persino pensare di scrivere un libro sulla Death Information e, perché no, stilare un protocollo su come dovrebbero essere i Festival di questi ambiti.
La saluto dicendole che da questo momento non risponderò più.
Marco Pipitone
Presidente di Segnali di Vita Aps
Peccato.
Sempre con stima, un caro saluto e grazie sinceramente di tutto il lavoro che svolgete.
Ciao Nicola,
La death education, esperienza costante nel mio ambito professionale, rappresenta un campo d’intervento esteso non solo nell’ambito culturale, ma anche nelle scuole, all’università, nella formazione professionale e nel volontariato. I festival, con particolare riferimento al pionieristico “Il Rumore del Lutto”, offrono un contributo significativo e sono inclusi nell’ambito della “death education”.
Mirano a cambiare le mentalità, contrastando la ancora diffusa tendenza alla negazione della morte. Ti faccio notare che questo grande lavoro si sviluppa attraverso diverse metodologie (che includono le informazioni di cui tu parli).
Tu sei anche un maestro di scuola e dovresti sapere che le lezioni che tieni sono intrinsecamente legate alla formazione interiore di ciascun individuo, ciò succede anche nella natura delle espressioni pubbliche (gli eventi che citi).
Un consiglio che mi sento di darti è di partecipare a questo tipo di eventi (non come relatore), forse potresti completare al meglio la tua riflessione.
Saluti
Ciao Maria Angela,
sono complessivamente d”accordo con le tue riflessioni, in particolare sull’intreccio tra informazione-educazione. Il limite che io vedo in questo approccio sta però da un lato lasciare alle singole sensibilità di ogni partecipante questo processo di osmosi (che di certo semplifica il lavoro e in parte deresponsabilizza chi offre eventi) dall’altro vivere, lo scrivevo anche prima, come un ostacolo, un limite, una qualche forma di delegittimazione al proprio ruolo organizzativo, formativo e altro.
Essendo poi attivo in prima linea ininterrottamente dal 1986 (purtroppo, vista la data), mi prendo la libertà di scegliere a quali eventi partecipare, dando la priorità a ciò che sia a livello formativo sia informativo mi appare consono, cosi come fanno tanti altri nel nostro ambito
Saluti.
Un incontro, in presenza o in rete, per approfondire insieme questa mia proposta è la conseguenza più significativa e logica del bellissimo dibattito che ci ha coinvolto in questi giorni.
Ci sono molti dati che, a mio parere, supportano l’idea di un ulteriore approfondimento:
1. la quantità dei commenti, sia rispetto ad altri post su questo blog sia più in generale, tenendo conto che numerose altre persone hanno preferito il contatto con chat o tramite mail personale;
2. l’intenso e appassionato coinvolgimento di ognuno, con inserimento di riflessioni, precisazioni, dubbi, critiche, ipotesi… ma sempre con il desiderio di approfondire e riflettere;
3. l’apertura mentale, la lucidità e la serenità emerse, segno della capacità di mettersi in ascolto di una diversa lettura che va a ‘toccare’ ciò che, per pochissimi (tra il 5 e il 10% rispetto ai tutti i contatti che ho avuto), è, purtroppo, ancora considerato ‘intoccabile’.
Come ha scritto Marina ‘abbiamo anche la responsabilità di non ipostatizzare il nostro pensiero, di continuare a sottoporlo a vaglio critico’ ed è quello che, tutti noi che siamo qui (oltre agli esterni prima nominati), abbiamo messo in campo.
E’ stato per me anche un’imperdibile possibilità di chiarirmi rispetto al tema in oggetto grazie alla lettura, rilettura, rimuginazione, accoglienza di altre letture e la conseguente possibilità di rispondere nello specifico: di questo sono grato e riconoscente ad ognuno.
Capisco anche le rarissime reazioni che probabilmente non sono state determinate da differenze legittime di idee ed esperienze ma da altro e spero che si possano con il tempo riequilibrare.
Mi metto quindi con piacere a disposizione di chi, contattandomi tramite canali diretti come mail/chat, fosse interessato a pensare insieme come organizzare questo prossimo incontro in modo che diventi un’occasione per considerarci tutti ‘vincitori’.
Caro Nicola è sempre interessante leggere i tuoi spunti così appassionanti e progressisti.
Ti ringrazio per aver aperto questo dibattito e concordo pienamente con te: death education e death information si tratta di due cose molto diverse e solo chi ha “le mani in pasta” riesce a distinguerle.
Ti porto la mia esperienza di celebrante che organizza e celebra funerali laici.
Sto notando che in questo settore si affacciano persone che, senza una appropriata formazione tanatologica, si approcciano ad un compito delicatissimo.
Esiste una associazione che in Italia raggruppa parecchie decine di queste persone e ha da poco pubblicato nel suo sito internet un articolo in cui afferma che “In Italia è frequente che sia una persona malata terminale a desiderare di organizzare il proprio funerale in vita.
Con l’aiuto di un celebrante la persona può raccogliere intorno a sé i propri cari, gli amici, chiedere agli ospiti di raccontare aneddoti e storie e di leggere qualcosa di appropriato. Si possono servire cibi e bevande per rendere la celebrazione più serena e conviviale”.
Scritto così è molto fuorviante, sembra che qualunque celebrante possa immergersi in una situazione che, dal mio punto di vista, è un momento sacro.
Prima di proporsi per affiancare un morente e i suoi familiari un celebrante dovrebbe conoscere ed aver sperimentato su di sé il proprio rapporto con la morte e il morire.
Il rito del commiato è significativo se parte dall’esperienza personale del celebrante che ha sperimentato la trasformazione nell’essersi confrontato realmente con la morte e il morire attraverso percorsi di Death education (quelli di cui parli tu e non ciò che confusamente intende chi ne parla senza cognizione).
Solo così il rito diventerà rispettoso, etico ed autentico e il celebrante potrà officiare un rituale senza farlo apparire come un atto formale e senza rischiare di trovarsi in situazioni delicate di cui non avrebbe la competenza per gestirle.
La formazione per l’elaborazione del lutto, di cui tu ti occupi con serietà e competenza da anni, ne è il parallelo esempio: solo persone motivate e formate possono muoversi all’interno di dinamiche così delicate.
Sono convinta che un celebrante deve essere consapevole del suo ruolo e sapere che esiste la figura professionale della Doula nel Fine Vita, prestando attenzione alla commistione di ruoli.
Per ritornare all’argomento, credo che la Death information dovrebbe essere rivolta a tutte le persone in generale e che la Death education dovrebbe essere una formazione esperienziale obbligatoria per coloro che vogliono operare correttamente nell’ambito del fine vita.
Grazie di aver compreso e accolto (come la stragrande maggioranza di chi ha letto qui e in altri posti) la vera motivazione della mia proposta che ha l’intenzione di aiutarci tutti, sia noi che proponiamo sia chi partecipa, a diventare sempre più efficaci, precisi e competenti. Lo stesso approfondimento e riflessione che porti, conseguente alla lettura di un altro testo, dimostra come, di fronte a ciò che appare nuovo e fuori dal coro, c’è chi si interroga, confronta, riflette, dissente, concorda…e chi, per motivi vari, polemizza, si allontana, dimostrando di non sapere entrare davvero nel vivo della questione.
La distinzione tra celebranti laici e Doula, riti di commiato pre o post decesso, formazione obbligatoria o meno ed esperienza personale come prerequisito sono temi di grande interesse per me, tutti da sviscerare e approfondire con la stessa attenzione e serenità con le quali tu hai ascoltato la proposta della Death Information e Death Education
Non sono una addetta ai lavori. La differenza tra Death iinformation e Death education mi convince e credo che tale distinzione non valga solo per la realtà della morte.
Mi sembra di poter aggiungere che qualunque di questi due sentieri si prenda, vadano individuati come campi di lavoro distinti la morte di altri e la propria morte.
Avranno momenti certi di incontro, soprattutto in età avanzata, ma mi parrebbe utile non lasciare che restino mescolati, ma eventualmente confrontati.
Grazie a Nicola per i suoi stimoli.
Penso anch’io che questa distinzione non si possa applicare solo alla questione della morte personale e altrui; ho vissuto altre esperienze, ad esempio in ambito scolastico, di incontri e percorsi alcuni chiaramente informativi su specifici aspetti, altri assolutamente formativi. Nella stessa formazione che viene realizzata con Crediti Ecm per docenti, la differenza (non di valore e qualità)) tra questi due livelli è spesso molto esplicita e sottolineata nella presentazione, proprio per aiutare a capire e a scegliere con più consapevolezza. Poi è vero, come in tutte le situazioni, che esiste una zona grigia intermedia e che per alcuni l’informazione si trasforma in formazione ma anche viceversa,
Credo anche Patrizia che in questo specifico ambito che riguarda così intimamente la nostra esistenza, siamo tutti
‘addetti ai lavori’.
Credo che sia fondamentale porre l accento sull’informazione che si trasforma silenziosamente in formazione quando ci si confronta.
Certamente: questo divenire da informazione a formazione, come pure il contrario però, accade spesso. L”importante a mio avviso è che non diventi una ragione per evitare di dettagliare e specificare i due aspetti che hanno comunque obiettivi e attività precise.