Si può dire morte
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La morte nel Buddhismo e la spiritualità nei contesti ospedalieri, di Cristina Vargas

18 Aprile 2025/0 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Alcune settimane fa ho avuto l’opportunità di condurre una giornata di formazione con un gruppo di ex-allievi del percorso La consapevolezza del vivere e del morire, organizzato dall’Agenda della Cura dell’Unione Buddhista Italiana.
La mia conoscenza della vasta, antica e complessa tradizione buddhista è molto limitata, ma la ricchezza di quel momento di incontro, in cui abbiamo dialogato sulla visione che ciascuno di noi ha della propria morte, mi ha motivato ad approfondire il pensiero buddhista su questo tema.
Nel Buddhismo è centrale l’idea che il dolore e la sofferenza siano parte integrante dell’esperienza umana ed è fondante la consapevolezza che ogni cosa, compresa la nostra vita e quella dei nostri cari, sia impermanente.
La parabola del seme di senape, una delle più note e popolari della tradizione tibetana, esemplifica bene questo concetto: Kisa era un giovane donna che viveva ai tempi del Buddha, era moglie di un uomo benestante e non aveva mai conosciuto il dolore della perdita. Un giorno il suo unico figlio, di appena un anno, si ammalò e morì. Sconvolta dal dolore, la donna non riuscì né a seppellire, né a cremare il proprio bambino. Tenendo stretto fra le braccia il corpicino, vagò a lungo per le strade implorando a tutti quelli che incontrava di darle una medicina per riportarlo in vita. Molti la compativano, altri la prendevano per pazza, ma nessuno aveva una soluzione da offrirle. Un saggio, infine, le disse che l’unico che poteva aiutarla era il Buddha, e così Kisa si recò da lui. Il Buddha ascoltò la richiesta della donna, poi rispose con gentilezza: “Se mi porterai un seme di senape cresciuto in una casa in cui non sia mai entrata la morte; una in cui nessuno ha perso un padre, una madre, un figlio o un amico; io guarirò il tuo bambino”. Kisa corse immediatamente in città e visitò molte case. Scoprì che in tutte la morte era stata presente e che ogni luogo era stato toccato dal lutto. Allora comprese che nessuno era libero dalla morte, che nell’universo nulla permane per sempre e che era stata egoista nel pensare che la sua tragedia fosse diversa da quella degli altri. Seppellì dunque in un bosco il corpo del bambino, e tornò dal Buddha per imparare da lui la verità.
Questa storia, che parla dell’accettazione della transitorietà e del lasciare andare, descrive una visione della vita e della morte poco diffusa nel nostro mondo contemporaneo. La nostra società, da un lato, tende a evitare il dolore e la sofferenza. Dall’altro ci capita, in maggior o minor misura, di aggrapparci ai legami materiali e affettivi e di fare molta fatica a lasciare andare coloro che amiamo. La filosofia buddhista è fonte di stimoli di grande ricchezza per tutti noi, forse proprio perché ci offre un modo radicalmente diverso, e forse più libero, di intendere la relazione con noi stessi e con chi ci è caro.
Un aspetto centrale del pensiero Buddhista è la reincarnazione. Essa non implica che ci sia un Dio creatore o che esista un’anima che sopravvive alla morte del corpo. È piuttosto la continuità della coscienza a permettere la rinascita.
Sogyal Rinpoche nel Libro tibetano del vivere e del morire, uno dei testi che ha maggiormente contribuito alla diffusione del pensiero buddhista nel modo Occidentale, spiega che il Buddhismo postula una causalità universale in cui tutto è soggetto al cambiamento, tutto ha una causa e tutto produce un effetto. Il principio del karma è proprio questo: l’idea che anche le più piccole azioni compiute in una vita, buone o cattive che siano, producano un effetto nella vita futura. In quest’ottica, il karma non equivale alla rassegnazione, al contrario, è un concetto pregno di implicazioni etiche, a partire dal quale si sviluppa una precisa moralità e un senso ampio di responsabilità che va oltre la dimensione individuale.
La morte nel buddhismo è considerata un processo. il concetto di “bardo”, noto nel mondo Occidentale grazie al Libro tibetano dei morti, è utile per capire ciò che avviene durante il morire.
Un bardo è un intervallo di tempo sospeso, in cui è presente con forza la possibilità del risveglio. I bardo sono quattro, tre dei quali si verificano in seguito alla cessazione delle funzioni vitali. L’ultimo è il bardo karmico, spesso considerato il più importante, ed è lo stato intermedio che si protrae fino al momento della nuova rinascita.
Dopo la morte inizia dunque un tempo sospeso, durante il quale, per citare di nuovo Sogyal Rinpoche “il praticante proietta la sua coscienza e la fonde con la mente di saggezza del Buddha”. Questo processo ha una fondamentale importanza, perché la sua qualità influenza in modo diretto il karma.
Dal punto di vista rituale, il Buddhismo non è prescrittivo e non ci sono particolari obblighi per i praticanti, tuttavia, i maestri consigliano il rispetto del tempo di transito e trasformazione che segue la morte fisica: in Tibet era usanza lasciare il cadavere intatto per tre giorni, per dare alla persona la tranquillità e il silenzio necessari per iniziare il suo viaggio.
Alcuni anni fa, grazie ed un’iniziativa dell’ASL Città della Salute e della Scienza di Torino, i rappresentanti delle più riconosciute comunità religiose presenti sul territorio intrapresero un dialogo interreligioso con i referenti ospedalieri sul tema dei riti funebri. Da questo percorso nacque un’integrazione al Regolamento di Polizia Mortuaria che oggi è stata estesa a tutto il Piemonte.
In quella occasione, i rappresentanti del Buddhismo Zen e Sokka Gakkai, entrambi italiani, affrontarono il nodo dei 3 giorni successivi al decesso. Come era chiaro a tutti, per la struttura era impossibile attendere 72 ore prima di rimuovere la salma dal reparto. Poteva però essere fatto tutto il possibile per garantire un trattamento il più rispettoso possibile della persona deceduta, informando gli infermieri e il personale della concezione della morte propria del Buddhismo e adottando la maggior cura possibile durante l’esecuzione delle procedure igieniche e durante il trasporto della persona in camera mortuaria.
C’è ancora molto terreno da percorrere perché nelle realtà ospedaliere italiane possa dirsi raggiunto l’obiettivo di garantire una piena tutela della libertà di culto delle minoranze religiose. Tuttavia questo, e numerosi altri esempi di attenzione ai bisogni di chi – italiano o straniero – ha una fede diversa, sono passi avanti nella direzione del pluralismo. L’apertura all’incontro con l’“altro” non è solo un importante segnale di rispetto reciproco, ma ci offre anche la possibilità di conoscere visioni nuove del mondo, arricchendo così i nostri orizzonti di pensiero.
Voi cosa ne pensate? Conoscevate questa visione della morte?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/04/kisa.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-04-18 10:11:012025-04-18 10:15:55La morte nel Buddhismo e la spiritualità nei contesti ospedalieri, di Cristina Vargas

Pianificare le cure: nuovi strumenti per il dialogo tra operatori e pazienti, di Cristina Vargas

20 Gennaio 2025/1 Commento/in La fine della vita/da sipuodiremorte

La Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC) rappresenta uno strumento essenziale nella tutela dell’autodeterminazione e della libertà di scelte delle persone affette da patologie croniche complesse e inguaribili, caratterizzate da processi degenerativi irreversibili, ma quantomeno in parte prevedibili, con una prognosi infausta e medio-breve termine.

Nel concreto, la PCC è un documento dinamico, redatto in modo congiunto da operatori e pazienti, che viene inserito nella cartella clinica e sul quale si può tornare a più riprese. A differenza delle Disposizioni Anticipate di Trattamento, che possono essere redatte in modo autonomo dalla persona in qualsiasi momento del suo percorso di vita, la Pianificazione Condivisa delle Cure rappresenta un tassello importante nelle fasi avanzate della presa in carico e si sviluppa nel contesto di una relazione terapeutica già instaurata da tempo.

Nell’ambito delle Cure palliative e nelle realtà che si occupano della presa in carico di malattie neurodegenerative (come la Sclerosi Laterale Amiotrofica, o la Sclerosi Multipla) vi è da tempo una forte consapevolezza della necessità di pianificare anticipatamente il percorso. In altri ambiti, invece, la PCC rimane ancora oggi largamente sottoutilizzata. In ogni caso, negli ultimi anni sono stati fatti notevoli passi avanti, al punto che in numerose realtà è ormai assodato che la PCC debba essere usata in modo generalizzato, e ci si comincia a interrogare sul momento e sul modo migliore di proporre questo strumento.

Per quanto riguarda il quando, la letteratura è concorde: il prima possibile.

Per quanto riguarda il come, l’esperienza maturata finora in Italia e, soprattutto, all’estero insegna che la stesura di una buona PCC non può essere lasciata né al caso, né alla predisposizione comunicativa individuale del singolo medico (o psicologo) che si trova ad affrontare la questione con il paziente. Al contrario, essa andrebbe programmata garantendo spazi, tempi e modalità adeguate a facilitare la comunicazione.

Nel modo anglosassone ci sono diversi strumenti nell’ambito dell’Advance Care Planning, che oggi sono usati a livello internazionale. A titolo di esempio possiamo menzionare la guida Universal Principles for Advanced care Planning sottoscritta dal Servizio Sanitario Pubblico Inglese (National Health Service – England) e da numerose altre realtà pubbliche e private con l’obiettivo di promuovere un approccio coerente alla pianificazione anticipata delle cure nel contesto britannico.

A mio avviso, uno degli strumenti più interessanti e innovativi che ho avuto modo di conoscere, è il Go-Wish Game, un gioco basato sulle carte che offre una via semplice e leggera per avvicinare il tema delle scelte di fine vita. Il set italiano è composto da 39 carte (ci sono 36 carte nella versione inglese, 41 in quella spagnola). 38 di queste carte contengono enunciati semplici, chiari e allo stesso tempo profondi su come ciascuno di noi vorrebbe vivere la fase finale della propria vita. La trentanovesima carta è il Jolly, che lascia campo libero a pensieri e bisogni che non sono presenti nel mazzo, ma che sono significativi per la persona.

Il Go-Wish Game è stato sviluppato nei primi anni duemila da Elizabeth Merkin e altri ricercatori all’interno dell’organizzazione no-profit Coda Alliance ed è stato recentemente tradotto, adattato al contesto culturale italiano e validato da un gruppo di ricercatrici e ricercatori (fra cui Marta Perin, Silvia Tanzi, Carlo Peruselli e Ludovica De Panfilis). Questo gruppo ha anche sviluppato un percorso formativo rivolto a professionisti sociosanitari.

Uno dei primi step della formazione consiste nell’usare il Go-Wish in prima persona. Non avendo potuto frequentare il corso in presenza, ho chiesto a una mia cara amica (che si occupa di tutt’altro, ma è molto aperta a discutere di questioni tanatologiche) di cimentarsi con me nel particolare compito di pensare insieme alle fasi finali della nostra vita: il Go-Wish, infatti, non è un “solitario” – per restare nel linguaggio del gioco – ma un mezzo per facilitare la comunicazione, il confronto e la condivisione su temi che spesso non sono facili da affrontare.

Il gioco – perché è proprio come gioco, inteso nel senso più bello e creativo della parola, che questo mazzo di carte è stato ideato – ha moltissime varianti, ma la versione più diffusa (e più usata nella clinica) consiste nel dividere le carte in tre mazzi: in un mazzo andranno le carte con le questioni più importanti; in un altro quelle parzialmente importanti e, nel terzo mazzo, quelle meno o per nulla importanti. Infine, si arriva a individuare dieci carte che sintetizzano le priorità della persona in ambiti che spaziano fra questioni prettamente fisiche (poter respirare bene; non essere attaccato a una macchina; essere libero dal dolore), questioni relazionali (aver vicino i miei amici più cari; avere la mia famiglia vicino), spirituali (essere in pace con Dio), pratiche (avere in ordine le mie finanze), psicologiche (conservare la mia lucidità mentale) e altro ancora.

A turno, ognuna ha scelto le proprie carte e ha spiegato all’altra il senso personalissimo che abbiamo dato a ogni frase. L’effetto è stato sorprendente: nonostante la nostra lunga conoscenza reciproca, molte cose ci hanno stupite e abbiamo entrambe realizzato che, da sole, non avremmo potuto prevedere le priorità dell’altra. Se mi fossi trovata a fare da portavoce delle sue decisioni in una situazione reale, avrei commesso numerosi (ancorché benintenzionati) errori di inferenza!

Sia in qualità di operatori, sia come caregiver, amici o parenti, il rischio di sovrapporre le nostre convinzioni e i nostri valori a quelli di un’altra persona è costantemente in agguato. Oltre a essere tutelante per la persona malata, la PCC è quindi una risorsa fondamentale per guidare le decisioni dei curanti in merito all’attuazione o alla limitazione dei trattamenti (soprattutto invasivi) e per caricare di significato concetti ampi e non univoci, come “dignità” e “proporzionalità”. Quale che sia lo strumento scelto per avviare un dialogo aperto e autentico, pianificare le cure in modo condiviso vuol dire infatti dare spazio ai vissuti soggettivi del paziente, al fine di comprendere quali siano i suoi bisogni, i suoi desideri e le sue priorità. Solo su questa base si può strutturare un iter di cura condiviso, centrato sulla dignità persona e sul suo diritto all’autodeterminazione.

Cosa ne pensate? Conoscevate il Go-Wish Game?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/01/Piano-condiviso-delle-cure-1-2048x1163-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-01-20 10:01:552025-02-03 18:22:38Pianificare le cure: nuovi strumenti per il dialogo tra operatori e pazienti, di Cristina Vargas

La dimensione sociale del morire: l’esempio virtuoso del Kerala, India, di Marina Sozzi

2 Agosto 2024/14 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Qualche mese fa abbiamo parlato di Compassionate Cities, ossia del tentativo, messo in atto da alcune istituzioni di cure palliative, e da alcune amministrazioni locali nel mondo, di far diventare la malattia, la morte e il lutto delle persone problemi condivisi nelle comunità.

Poiché nel nostro contesto ciò sembra piuttosto utopico, mi sembra utile raccontare l’esperienza che è stata fatta negli ultimi trent’anni nello Stato del Kerala, nel sud dell’India, che ha una popolazione di circa 35 milioni di persone. Si tratta di un’esperienza narrata come esempio virtuoso dal documento della Lancet Commission del 2022, intitolato The Value of Death, di cui si è già parlato in questo blog.

Il documento sostiene che in ogni paese, in ogni realtà, sia identificabile un “sistema della morte” (death system): ossia un insieme interconnesso di fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici che determinano il modo in cui la morte, il morire e il lutto vengono compresi, sperimentati e gestiti. La maggior parte dei sistemi presenta dei problemi, se pensiamo che nel primo mondo vi è ancora, talvolta, una iper-medicalizzazione della morte, mentre nei paesi poveri mancano i farmaci necessari per curare molte malattie che altrove vengono sconfitte, e per togliere il dolore. Occorre quindi, per ogni realtà, comprendere approfonditamente le difficoltà e gli errori, per introdurre i correttivi che possano migliorare il sistema. L’approccio che adottiamo, qualora si vogliano migliorare le cose, non deve essere riduzionista, né limitarsi a delegare alla medicina il problema del morire, al fine di non eludere la complessità di ogni sistema della morte.

Ora torniamo al Kerala, per capire in che modo sono stati realizzati i mutamenti che hanno rivoluzionato il sistema dello Stato indiano.

Tutto cominciò nel 1993, quando, ad opera di due medici e un volontario, fu costituito un ambulatorio di cure palliative. Si trattò di un investimento notevole, che vide la collaborazione di molti donatori locali: ben presto, però, fu chiaro che i malati gravi non potevano spostarsi per raggiungere l’ambulatorio, e che anche per i familiari era difficile perdere un giorno di lavoro per recarvisi. Ci si rese conto che i complessi bisogni fisici, sociali, emotivi e spirituali dalle persone gravemente malate non potevano essere soddisfatti da un servizio clinico distante, e poco per volta si cominciò così a spostarsi per raggiungere i pazienti nelle loro case (facendo ciò che noi definiamo un “servizio domiciliare”).

Ma il grande cambiamento avvenne intorno al 2000, quando la realtà locale rese evidente la necessità di adottare un nuovo paradigma, che si facesse carico delle fragilità sociali delle persone malate. La malattia in fase avanzata e il morire sono problemi sociali con un aspetto medico, e non eventi medici con un versante sociale: una rivoluzione copernicana rispetto alla visione biomedica della cura.

A partire da questa nuova convinzione, si è cominciato a coinvolgere le comunità locali, attraverso le loro molteplici reti: le organizzazioni religiose, le aziende del territorio, gli attivisti, gli insegnanti, i contadini. Sono state create associazioni di volontari accuratamente formati, e sono stati raccolti i fondi necessari per far partire il progetto. Nel 2007 c’erano quasi cento centri in tutto il Kerala capaci di dare sostegno a chi affrontava la morte, con una rete di migliaia di volontari. Questo modello sociale di assistenza ha trasformato il modo in cui le persone vivono e muoiono. Le persone affette da malattie incurabili hanno avuto volontari che andavano a visitarli a casa, sostenevano i loro cari, raccoglievano fondi per consentire ai bambini di andare a scuola e fare in modo che ci fosse il cibo necessario per la famiglia, e si adoperavano inoltre per trovare un lavoro alle persone a cui la morte aveva sottratto il congiunto che era l’unico sostegno economico dell’intero gruppo familiare. L’assistenza medica e infermieristica è stata fornita gratuitamente e, con il cambiamento di mentalità, è stato possibile dire parole oneste sulla diagnosi e sulla prognosi. I volontari sono stati fondamentali anche perché hanno portato alle comunità informazioni sanitarie preziose, ad esempio spiegando quanto fumare o masticare la noce di betel sia nocivo per la salute; sfidando talvolta i pregiudizi diffusi, come l’idea che il cancro sia contagioso. Sono stati inoltre particolarmente efficaci nel combattere lo stigma nei confronti delle persone affette da HIV e AIDS.

Poco per volta, le politiche pubbliche e le istituzioni si sono alleate (non senza contrasti e problemi) con la rete di volontariato, creando una politica statale capace di garantire le cure palliative e la disponibilità dei farmaci oppiacei.

Il risultato è che oggi oltre 1600 istituzioni forniscono servizi di cure palliative in tutto il Kerala; si stima che i servizi di cure palliative siano disponibili in ogni distretto del Kerala e che raggiungano circa il 70% di coloro che ne hanno bisogno, diversamente dalla media nazionale indiana, che è del 23%.

Ora, cosa possiamo dedurre da questa esperienza? In parte è sovrapponibile a quella italiana: nel nostro paese negli anni Ottanta è stato soprattutto il Terzo Settore (e il volontariato) a far partire i servizi di cure palliative, diffondendone anche la cultura e la filosofia. E solo successivamente sono giunte le leggi, quella sugli hospice del 1999, e quella di istituzione delle cure palliative del 2010.

Tuttavia, finora le cure palliative non si sono impegnate, nel nostro paese, a coinvolgere le comunità.

Eppure, in alcune realtà si è compreso che le famiglie che accompagnano un congiunto durante l’ultimo tratto della vita hanno problemi che sono di carattere sociale, oltre che medico. Così è nato, ad esempio, il Progetto di Protezione delle Famiglie Fragili (dapprima a Torino, in Fondazione Faro, poi esteso a tutto il Piemonte), che si occupa di sostenere le fragilità di carattere sociale che la malattia scoperchia o aggrava, con uno sguardo particolarmente attento rivolto ai bambini.

Questo progetto sembra un terreno fecondo per allargare ulteriormente lo sguardo, rivolgendolo alle comunità, intensificando la vigilanza sulle fragilità, e formando volontari in tutti gli ambiti della vita sociale, capaci di interagire con i malati e i loro familiari e amici.

Il modello del Kerala, peraltro, è riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come Collaborating Centre for Community Participation in Palliative Care and Long Term Care. Utopia concreta, come la definiscono gli estensori del documento The Value of Death.

 

Cosa ne pensate? Credete che l’esperienza del Kerala sia esportabile? Troveremmo anche noi così tanti volontari disposti ad occuparsi dei morenti e dei dolenti? Potremmo modificare il nostro “sistema della morte” in un senso più sociale?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/08/Kerala1.png 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-08-02 10:03:132024-08-02 10:03:13La dimensione sociale del morire: l’esempio virtuoso del Kerala, India, di Marina Sozzi

Il modello delle cure palliative è vincente? di Marina Sozzi

28 Giugno 2024/7 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Una morte accompagnata e gestita in équipes multidisciplinari, con la sofferenza controllata, con attenzione olistica agli aspetti psicologici, sociali e spirituali della malattia e della fine della vita, con la tutela della dignità e dell’autodeterminazione, così che il malato, posto al centro della cura, possa mantenere la padronanza della propria vita fino alla fine. In questo modello di morte, proposto dalle cure palliative, appare meno spaventoso vivere il proprio morire. Da questo punto di vista le cure palliative sono davvero la buona novella del nostro tempo.

Ma quanto è noto, e quanto è vincente questo modello a livello sociale? Per dare una risposta possiamo fondarci, per quanto riguarda il nostro paese, su un sondaggio Ipsos, commissionato da Vidas e da Federazione Cure Palliative nel 2023.

Si trattava di comprendere quanto siano conosciute le cure palliative nel nostro Paese, sia tra i cittadini sia tra i medici, e quale sia l’opinione che ne hanno gli uni e gli altri.

In generale, i risultati ci presentano importanti progressi rispetto al precedente sondaggio, del 2008.

Tra i cittadini l’indagine mostra un notevole aumento della conoscenza: se nel 2008, infatti, il 41% degli intervistati non aveva mai sentito parlare di cure palliative, oggi quella percentuale è scesa al 6%. Parallelamente è cresciuta molto l’informazione su questa specifica modalità di cura: nel 2008 solo il 24% degli italiani dichiarava di avere le idee abbastanza chiare, ora il 54% dice di sapere bene di cosa si tratta. Sebbene il 18% delle persone intervistate ritenga che le cure palliative siano cure inutili o ‘naturali’ o alternative alla medicina tradizionale, è però sempre più diffusa la convinzione che si occupino di migliorare la qualità di vita di persone gravemente malate e delle loro famiglie, indipendentemente dalla patologia. La comprensione della parola “hospice” è più che raddoppiata, dal 24% al 56%. Secondo la ricerca, 8 cittadini su 10 sanno che le cure palliative sono un diritto (sancito dalla legge 38 del 2010), e che deve essere garantito gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale.

Anche l’opinione sulle cure palliative è per la grande maggioranza positiva (il 90%), mentre solo il 4% risponde “per niente positiva”. E circa il 91% degli italiani è d’accordo, o abbastanza d’accordo, con l’utilizzo dei famaci oppiacei. Solo il 10% teme che le cure palliative abbrevino la vita.

Unico dato che dà da pensare: il 57% dei cittadini non sa se le cure palliative siano disponibili sul proprio territorio. Oltre a questa carenza di informazione sulla accessibilità per sé e per i propri cari delle cure palliative, le principali lacune sono sulla conoscenza delle cure palliative pediatriche (4 italiani su 10 pensano che le cure palliative non possano riguardare i bambini).

Agli intervistati è stato anche chiesto quali ostacoli esistano, a loro modo di vedere, per una migliore e più generale conoscenza delle cure palliative. Il 12% ha citato la paura della morte, e solo il 16% la riluttanza delle persone a parlare della morte e del morire (a dimostrazione che forse della morte se ne parla, e molto). Il 30% denuncia una cultura che si concentra sulla guarigione e sulla cura attiva delle malattie, e il 18% sulla mancanza di campagne pubbliche di sensibilizzazione.

Meno rassicuranti sono i dati che riguardano i medici: medici di medicina generale, specialisti ospedalieri, pediatri di libera scelta. Tra i medici, infatti, resiste ancora una percentuale che ignora cosa siano le cure palliative: il 21% dei pediatri, il 17% degli specialisti ospedalieri, il 15% dei MMG. E solo il 60% circa dei medici asserisce di sentirsi sufficientemente informato sulle cure palliative, anche se quasi tutti assicurano di essere propensi ad attivarle per i pazienti eleggibili (ma solo quando le cure attive non incidano più sull’andamento della malattia). Tra i pediatri questo dato peggiora, e solo uno su tre si sente abbastanza ferrato sulle cure palliative pediatriche.

Ai medici è stato anche chiesto quali siano per loro le maggiori difficoltà nell’attivarle. Molti credono (con un evidente scarto rispetto ai risultati dell’indagine sui cittadini) che le persone siano poco informate, e che quindi parlare loro di cure palliative sia difficile. In realtà, come abbiamo appena constatato, non è più così. Emerge poi un impedimento più personale, che ha a che fare con una formazione insufficiente: non è facile dare informazioni su una prognosi a breve termine.

Nonostante i limiti che abbiamo evidenziato, possiamo affermare che questa ricerca mette in evidenza la presenza di una padronanza abbastanza diffusa, e di un giudizio molto positivo sulle cure palliative.

Il modello delle cure palliative si sta dunque facendo strada nella società e sta diventando vincente dal punto di vista culturale. Non è una buona ragione per sedersi sugli allori, ma questi dati ci permettono di misurare il percorso fatto, e di continuare con maggior fiducia il lavoro di sensibilizzazione dei cittadini e di formazione dei medici.

E ci induce inoltre ad abbandonare il vuoto luogo comune della società che nega, o rimuove, o tabuizza la morte, nella quale dunque è impossibile parlare di fine della vita, e di conseguenza di cure palliative.

Voi come leggete questi dati? Cosa ne pensate? Vi ritrovate nella constatazione di un miglioramento?

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/06/survey-immagineevidenza.jpg 265 351 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-06-28 10:56:362024-06-28 10:56:36Il modello delle cure palliative è vincente? di Marina Sozzi

Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

13 Novembre 2023/22 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Sono convinta che alla fine della vita la dimensione della spiritualità divenga più rilevante. L’homo faber, infatti, che generalmente ha avuto un ruolo preponderante durante la maggior parte della vita, va esaurendosi. A questo punto della storia biografica delle persone la ricerca di senso è uno snodo inevitabile. La malattia e la morte fanno emergere gli interrogativi sul senso sia nelle persone sia negli operatori, che sono a contatto ogni giorno con il morire degli altri.

Inevitabilmente, il confine tra la vita e la morte interseca la dimensione del sacro, del mistero, del trascendente (inteso in senso lato, come ciò che va oltre la quotidianità dell’esperienza). Per questo è fondamentale che le équipe di cure palliative siano consapevoli che il terreno su cui si muovono è costituito anche dalla dimensione spirituale.

Tuttavia, ho cercato anche di pormi un altro interrogativo, che mi pare serpeggi nelle istituzioni che offrono cure palliative, ma al quale non è ancora stata data una risposta definitiva. La questione è: la dimensione spirituale è propria dell’équipe nel suo complesso, oppure è utile, e magari opportuno, che esista una figura di assistente spirituale laico che si occupi di questo versante dell’esperienza della fine della vita? Non entro invece nel merito della presenza di assistenti spirituali religiosi, delle varie confessioni, che possono essere presenti oppure essere chiamati dall’équipe, una volta individuato il bisogno del paziente o del familiare. Per scrivere questo articolo mi sono confrontata con alcune persone, che desidero ringraziare, perché mi hanno permesso di entrare nel merito del loro lavoro: Caterina Giavotto, assistente spirituale in Vidas, a Milano; Claudia Cavegn, assistente laica (cattolica) al Regina Margherita, ospedale pediatrico a Torino, e infine Guidalberto Bormolini, sacerdote della comunità dei Ricostruttori, e promotore della scuola di assistenza spirituale. E mi è stato inoltre utile, per chiarire le mie idee, leggere il  in assistenza spirituale della Società Italiana delle Cure Palliative, del 2019, che potete consultare qui, e che offre una riflessione molto ricca, problematica e sfaccettata.

In questo periodo, peraltro, molte istituzioni si sono concentrate sul tema della spiritualità, costruendo corsi (ad esempio quello dell’Unione Buddisti Italiani, ma soprattutto la Scuola di Alta Formazione per l’assistente spirituale in cure palliative di Ricostruire la Vita, promosso da Fondazione Luce per la Vita, Associazione TuttoèVita ETS, Federazione Cure Palliative, Società Italiana di Cure Palliative).  Il Core Curriculum della SICP esordisce affermando che l’obiettivo del documento non è tanto di formare figure di assistenti spirituali, quanto di definire quali competenze debba acquisire l’équipe, nel suo complesso, per poter aiutare i pazienti e le famiglie ad affrontare le complesse domande di carattere spirituale che si affacciano alla fine della vita.

In effetti, molti degli aspetti citati come parte di un’ipotetica formazione dell’assistente spirituale sono, senz’altro, elementi propri di una cura di qualità: la compassione, (in senso etimologico di cum patior), l’ascolto, la comunicazione non giudicante, eccetera.

Da questo punto di vista, mi pare che ci sia una certa sovrapposizione tra la figura dello psicologo (che alla fine della vita si occupa proprio del senso e delle relazioni) e quella dell’assistente spirituale: sovrapposizione che le persone che ho intervistato, ad esempio Caterina Giavotto, confermano essere presente. Anzi, ribadisce Claudia Cavegn, “non si tratta di una frontiera”, c’è lo spazio comune dell’ascolto. E Bormolini sottolinea che non dobbiamo circoscrivere gli ambiti, perché dobbiamo mantenere la logica della “persona integrale”: “se spezziamo, frammentiamo”.

Tuttavia, ciascuno di loro sottolinea un aspetto specifico del proprio lavoro, non comune con l’operato dello psicologo. Bormolini ha subito chiara la specificità della dimensione spirituale, che ha a che fare, per lui, con il trascendente (in senso ampio: se non hai qualcosa per cui morire non hai qualcosa per cui vivere), il mistero, l’orientamento (avere una direzione) e il senso di comunione con qualcosa di più grande.

Caterina Giavotti mi racconta invece di una signora che aveva chiesto di vedere un frate (non un prete). Voleva una figura con un ruolo trasversale nella chiesa. Perché? Le ha chiesto Caterina. La signora aveva, nella sua biografia, due aborti, ed era terrorizzata che “Gesù non l’avrebbe perdonata”. Insieme hanno costruito (inventato) un piccolo rito, con la meditazione, una preghiera, e con una scatolina in cui lasciar andare l’accaduto e il rimorso, un rito che ha alleggerito molto la signora in questione.

Anche Claudia Cavegn mette l’accento sull’aspetto rituale: nella sua esperienza c’è una famiglia Rom con una bimba vicina alla fine della vita, una famiglia nella quale il marito è musulmano e la mamma ortodossa. La mamma, quando ha saputo che la speranza di guarigione non c’era più, ha chiesto che la bimba fosse battezzata. Quando ha saputo che Claudia poteva battezzarla, non le è importato che fosse cattolica. La rilevanza simbolica del rito l’ha fatta andare oltre i confini della propria confessione religiosa.

La dimensione del rito (e di un rito non religioso in senso stretto) è interessante. La morte, come scriveva Van Gennep, e molti altri antropologi con lui, è un rito di passaggio. Per chi resta, naturalmente. Ma talvolta anche chi se ne va ha bisogno di una dimensione rituale, un’azione che simbolizzi qualcosa che non si riesce a dire altrimenti, o ad elaborare altrimenti (come la signora che aveva abortito).

Questa dimensione è interessante anche perché sono convinta che le invenzioni rituali possano avere un ruolo rilevante in una società molto secolarizzata come la nostra. Per molti, la scatolina è più efficace dell’unzione dei malati.

Il core curriculum di SICP propone inoltre che la formazione preveda una cultura di massima sulla dimensione rituale e culturale delle religioni. Il che può senz’altro essere utile, mantenendo però la consapevolezza della complessità e della pluralità delle modalità di abbracciare uno stesso credo. Di fronte a una persona, non ci basta sapere, ad esempio, che è musulmana. Diverso è l’islam in diverse parti del mondo e, anche all’interno di una medesima area geografica, in vari strati sociali, e in famiglie diverse. Inoltre, talvolta può accadere che le persone in terra d’accoglienza modifichino l’atteggiamento religioso che avevano in patria. La formazione in “assistenza spirituale” va dunque usata per avere un inquadramento di tipo generale, e non per incasellare i bisogni dei pazienti o dei familiari.

Non ho naturalmente una risposta definitiva alla questione del ruolo dell’assistente spirituale, e concordo con il documento SICP che non è possibile avere la preparazione necessaria a espletare questo ruolo attraverso un corso, perché si tratta di qualcosa di più di una competenza: piuttosto è un atteggiamento nei confronti del mondo e della vita, che si nutre di esperienze reiterate, dalle quali si apprende e si affina la propria spiritualità, indispensabile per confrontarsi con quella degli altri.

Volevo solo portare alcuni punti alla riflessione, e sono naturalmente in ascolto delle vostre considerazioni, risposte ed esperienze. E grazie come sempre per il fruttuoso dibattito che sempre emerge da queste pagine!

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/11/RobertPopeSparrow1989-e1699889434691.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-11-13 16:56:492023-11-21 13:40:11Come sostenere il bisogno spirituale alla fine della vita? di Marina Sozzi

Le cure palliative pediatriche: una risorsa nell’accompagnamento dei bambini inguaribili, di Cristina Vargas

22 Maggio 2023/1 Commento/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Non è facile trovare le parole per parlare della malattia grave, della sofferenza e del fine vita dei bambini. Mentre scrivevo questo articolo mi sono accorta quanto ogni frase mi sembrasse insufficiente e superflua, incapace di cogliere la profondità del dolore dei piccoli malati e delle famiglie che si trovano ad affrontare queste drammatiche situazioni. Sentivo soprattutto la mancanza di un linguaggio condiviso per parlare di un tema su cui nella nostra società si preferisce tacere per “non pensarci”. Non vorremmo che fosse così, eppure succede: i bambini e i neonati possono essere colpiti da malattie per le quali non ci sono trattamenti curativi (o, se ci sono, questi possono fallire), e possono trovarsi ad affrontare percorsi carichi di sofferenza fisica e psichica.

Le cure palliative pediatriche, con il loro approccio olistico e integrato, sono una delle più importanti risorse assistenziali che oggi abbiamo a disposizione per accompagnare i bambini e ragazzi in età pediatrica affetti da patologie gravi e inguaribili, che limitano le loro possibilità di sopravvivenza. L’OMS, infatti, definisce le cure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino, al fine di alleviare la sua sofferenza e migliorare la sua qualità di vita. La cura è intesa in un’ottica olistica e integrata e include necessariamente il supporto a tutta la famiglia.

In Italia, le cure palliative pediatriche sono state introdotte grazie alla Legge n. 38 del 2010, che prevedeva l’implementazione di reti territoriali e ospedaliere per la presa in carico sia dei bambini, sia degli adulti. In diverse regioni ci sono gruppi che hanno attivato servizi efficaci e stanno portando avanti un importante lavoro culturale per diffondere le cure palliative pediatriche, tuttavia, si tratta di un campo relativamente nuovo e c’è ancora molto terreno da percorrere: la Società Italiana di Pediatria stima che ogni anno ci siano circa 30.000 – 35.000 bambini che richiederebbero cure palliative, ma purtroppo solo il 15% di questi vi ha effettivamente accesso.

Mi sono avvicinata personalmente a questo campo grazie a diverse esperienze come docente e come formatrice. In questi contesti, il mio compito è quello di riflettere, insieme agli operatori, sugli aspetti antropologici e sull’incidenza dei fattori socioculturali nei casi da loro affrontati. Durante le mie lezioni e supervisioni ho avuto la possibilità di incontrare pediatri, neonatologi, medici legali, infermieri, psicologi, assistenti sociali, assistenti spirituali e altre figure ancora. Le équipe, infatti, sono sempre multiprofessionali, perché un singolo operatore semplicemente non basta.

I problemi sono tanti. Sul piano psicologico per i genitori la malattia grave di un figlio, oltre ad essere di per sé un’esperienza drammatica, comporta un turbinio di emozioni difficili – la rabbia, la paura, la frustrazione, il senso di impotenza – che non di rado mettono in crisi l’identità soggettiva e minano la stabilità della coppia. Ciascuno, compreso il bambino quando è più grandicello e consapevole, elabora il proprio vissuto e, a modo proprio, si interroga sul senso esistenziale dell’esperienza che sta attraversando. La malattia di un figlio ha anche numerose implicazioni sociali: essa rende necessaria una drastica riorganizzazione della quotidianità intorno ai bisogni assistenziali del piccolo malato e, soprattutto nei nuclei più vulnerabili, amplifica il rischio di povertà. Nelle famiglie è inoltre necessario conciliare il lavoro e la cura e capita che uno dei coniugi (quasi sempre la madre) debba rinunciare o ridurre il proprio lavoro. Nei nuclei a volte ci sono altri figli: fratelli e sorelle che rischiano di diventare “invisibili” perché tutto sommato “stanno bene”, e il dolore per chi invece bene non sta è troppo grande per lasciare spazio ad altri pensieri. Insomma la complessità è molto elevata e solo la collaborazione sinergica fra figure con competenze diverse può accogliere bisogni psicologici, umani, spirituali, sociali e clinici.

Fra le famiglie ci sono italiani e stranieri; persone benestanti o in difficoltà economica; reti familiari allargate e nuclei monoparentali; coppie coese e solide oppure in guerra fra loro. C’è chi soffre in silenzio, c’è chi urla, c’è chi si allontana, c’è chi crede di non avere le forze e invece da qualche parte le trova.

Anche le storie di vita e di malattia dei pazienti sono molto diverse. Ci sono, per esempio, situazioni prevedibili, in cui si sa che la condizione del neonato o del bambino è incompatibile con la sopravvivenza a lungo termine. In questi casi la pianificazione condivisa delle cure rende possibile concordare con l’équipe come gestire il tempo che resta senza interventi invasivi, facendo uso della terapia del dolore e di tutto ciò che è necessario per garantire al bambino il maggior confort possibile. Ci sono, all’estremo opposto, casi in cui la situazione deriva da un evento acuto i cui esiti non sono prevedibili, e dunque si deve decidere di volta in volta se andare avanti o fermarsi, facendo sempre i conti con l’incertezza.

Ci sono situazioni che iniziano già durante la gravidanza, e percorsi che coinvolgono ragazzi di quindici anni o sedici anni, che sono pazienti cronici e conoscono da tempo la loro malattia: qualsiasi cosa gli adulti credano, loro sanno, pensano, scelgono e, anche se minorenni, e alla loro voce va dato il giusto peso.

Cii sono poi bambini affetti da malattie degenerative neurologiche e metaboliche, oppure con gravi patologie irreversibili che causano disabilità severa senza prospettive di cura: in questi casi le cure palliative rappresentano una via per accompagnare la famiglia a lungo termine. Le cure palliative pediatriche, infatti, non sono le “cure della terminalità”, nel senso che non riguardano solo le fasi finali, ma prevedono iter assistenziali che durano a volte anni. Esse iniziano al momento della diagnosi, e continuano anche in concomitanza con altre terapie curative quando queste sono attuabili.

Tutti questi percorsi, per quanto diversi, sono accomunati da una filosofia che pone al centro una visione olistica della persona e della cura, che dà valore alla relazione, all’ascolto, e all’alleanza, e che ha uno sguardo sempre attento all’appropriatezza delle scelte cliniche. Sono centrali anche la dignità e il rispetto della volontà dei genitori e, quando possibile, del bambino o ragazzo, tenendo conto della sua età e del suo grado di sviluppo. In conclusione, mi sembra essenziale sottolineare l’importanza di garantire il diritto di accedere alle cure palliative pediatriche a tutti coloro che ne avrebbero bisogno. È quindi fondamentale colmare le lacune che ancora ci sono e, parallelamente, introdurre la filosofia e l’approccio palliativo in tutti i contesti ospedalieri pediatrici che si confrontano con l’inguaribilità.

Avete esperienze dirette o indiretto con questo tema? Attendiamo, come sempre, le vostre considerazioni.

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Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

27 Gennaio 2023/2 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Nel corso degli ultimi anni, su questo blog, ho spesso raccontato e descritto le più svariate conseguenze generate dall’uso delle tecnologie digitali sulla comprensione umana del ruolo della morte nella vita, nonché nell’ambito dell’elaborazione del lutto e sul modo di conservare la memoria e di desiderare, eventualmente, l’immortalità.

Il progresso tecnologico avanza con una velocità tale da rendere sempre più pervasivo l’utilizzo intergenerazionale delle piattaforme digitali. Fino a qualche anno fa era normale servirsi dell’espressione “nativo digitale” per stabilire un implicito confine tra generazioni. Oggi, invece, siamo uniformemente concordi nel credere che il futuro prossimo sarà contraddistinto da cittadini di ogni età abituati a considerare le tecnologie digitali come strumenti irrinunciabili per lo svolgimento della vita quotidiana, quasi come vere e proprie protesi di sé. A prescindere dal fatto che questo ci piaccia oppure no. La consapevolezza della continua espansione della dimensione online e del carattere imprescindibile degli smartphone e dei computer mi fa pensare quanto segue: è giunto il momento di introdurre – in maniera ufficiale e non procrastinabile – la cosiddetta “tanatologia digitale” nei percorsi formativi ed educativi dei medici, degli operatori sanitari, degli psicologi, dei palliativisti e degli educatori in senso lato. In altre parole, occorre prendere coscienza che la relazione tra le tecnologie digitali e il fine vita non è più di natura rapsodica, magari limitata a specifici target di età o a particolari gruppi di cittadini particolarmente avvezzi alle tecnologie. È, semmai, una relazione che riguarda l’intera cittadinanza e che produce continuamente sia nuove opportunità sia, soprattutto, inedite criticità. La conoscenza attenta di entrambe diventa, pertanto, fondamentale per non aumentare le difficoltà e le sofferenze che già viviamo di per sé durante l’ultima fase della vita personale o di quella dei propri cari.

Quali sono, nel dettaglio, gli aspetti che rendono necessaria una sorta di “tanatologia digitale” nei percorsi di formazione? In primo luogo, l’aspetto comunicativo. È già ricorrente di per sé il problema della comunicazione faccia a faccia tra il medico, il paziente e i familiari del paziente in presenza di una malattia mortale o, in alternativa, radicalmente invalidante. Un problema che è particolarmente sentito a partire dal processo di rimozione sociale e culturale della morte e dalla riduzione della malattia a un tabù. Lo sviluppo della telemedicina, accelerato dalla pandemia da Covid-19, sta generando nuove forme di comunicazione che avvengono perlopiù in maniera scritta, tramite applicazioni di messagistica privata come WhatsApp o via mail, a cui si aggiungono le ricerche individuali attuate su Google. È, di conseguenza, fondamentale comprendere le differenze comunicative in presenza e a distanza, tramite parole espresse a voce o per iscritto, di modo da non incrementare le incomprensioni, le ansie, i dolori e le sofferenze delle persone. I registri linguistici e simbolici sono differenti, di conseguenza lo sono altrettanto i problemi che derivano dal loro uso. L’aspetto comunicativo include, poi, la gestione dei social media durante una malattia mortale: ogni singolo individuo ha un rapporto differente con i social, dunque risulta doveroso intercettare le sue modalità comunicative affinché i social diventino uno strumento di sostegno e non un problema in più. Tra l’altro, i singoli social si differenziano gli uni dagli altri, pertanto bisogna districarsi tra le peculiarità di Facebook, Instagram, YouTube, Tik Tok e via dicendo. E, ancora, come fare con l’eredità digitale? Cancellare preventivamente i propri profili? Mantenerli in vita? Darli in gestione a persone fidate? La risposta a queste domande chiama in causa, in secondo luogo, il lutto e la sua elaborazione. Oramai, ognuno di noi conserva una quantità incalcolabile di tracce delle persone amate, come mai successo in passato: parole scritte, messaggi vocali, fotografie, registrazioni audiovisive. Queste tracce tendono sempre più a rappresentare un prolungamento digitale dell’identità individuale (ormai, è diffusa tra gli studiosi l’espressione di “carne digitale” per descrivere questo prolungamento sul piano emotivo). Pertanto, è in costante aumento il numero dei dolenti che faticano a intraprendere un sano percorso di elaborazione del lutto, circondati da così tanti documenti i quali sembrano mantenere vivi i propri cari defunti. Sono sempre più numerosi coloro che proiettano sul proprio smartphone o su quello del caro defunto la possibilità di un contatto attivo, trascendendo in maniera patologica il mero ricordo o creando ibridazioni inedite tra le ritualità religiose assodate e quelle prodotte dalle tecnologie.

Questi sono solo alcuni dei tanti temi che occorre tenere a mente, man mano che mutano le caratteristiche delle società all’interno di cui nasciamo, cresciamo e moriamo. Mi pare miope e inconcludente escludere l’importanza della relazione tra tecnologie digitali e fine vita, a causa di pregiudizi individuali o di sospetti nei confronti di un’epoca storica particolarmente incentrata sulla tecnica e sulla tecnologia. Ancor di più, considerando che ci stiamo muovendo nella direzione del Metaverso e della realtà virtuale.

Cosa ne pensate? Ritenete sensate queste preoccupazioni? Attendiamo con interesse i vostri commenti, dubbi e riflessioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/01/Metaverso-LinkPA-copia.jpg 265 300 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-01-27 10:07:272023-01-27 10:07:28Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

Consapevolezza? di Marina Sozzi

17 Gennaio 2023/31 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.

Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.

Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?

Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.

Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.

Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.

Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.

E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).

La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.

E allora?

Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.

Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?

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Narrare la fine, di Cristina Vargas

5 Ottobre 2022/8 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Nel 2019 venne diagnosticato un mieloma multiplo a Marilyn Yalom, studiosa di letteratura francese e autrice di numerosi libri sulla storia delle donne. Nonostante fosse sofferente tanto per causa della malattia che la affliggeva quanto per gli effetti collaterali della chemioterapia, Marilyn, conscia di avere solo alcuni mesi di vita, chiese a suo marito (il noto psichiatra e psicoterapeuta esistenziale Irvin Yalom) di scrivere un libro insieme per documentare le difficoltà di quei mesi finali. I due coniugi ottantasettenni cominciarono a scrivere spinti dal bisogno di trovare significato e soccorso nella scrittura, ma anche dalla speranza di essere utili ad altri che, come loro, stavano lottando contro una malattia terminale. Nacque così il volume “Una questione di morte e di vita” (Neri Pozza, 2022) che, alternando i capitoli fra i due autori, raccoglie in modo profondo e intimo le riflessioni, le emozioni, i pensieri e le sofferenze di ciascuno dei due lungo il percorso di cura. Nelle pagine finali, Irvin, ormai vedovo, si rivolge a Marilyn dicendo “Sei stata così saggia a invitarmi a scrivere questo libro con te… no, no, non è corretto: non mi hai invitato; hai insistito perché mettessi da parte il libro che avevo iniziato e, piuttosto, scrivessi queste pagine insieme a te. E ti sarò per sempre grato per la tua insistenza: questo progetto di scrittura mi ha tenuto in vita da quando sei morta, centoventicinque giorni fa.”

Meglio di qualsiasi riflessione teorica, queste parole colgono con vivida chiarezza il ruolo della narrazione nelle fasi finali della vita e nel lutto. Byron Good, antropologo e pioniere nel campo della medicina narrativa, descrive il narrare come “uno sforzo di dare forma al dolore, di dare nome alle sue origini nel tempo e nello spazio”. Raccontare è proprio questo, non tanto (o non solo) un modo per registrare o ripercorrere gli eventi vissuti, ma soprattutto un atto che conferisce significato all’esperienza, costruendo una trama che aiuta a integrare la sofferenza e la perdita nella propria autobiografia.

Nel fine vita e nel percorso di elaborazione del lutto la narrazione è infatti una risorsa importante, che ha lo straordinario potere di restituire, quantomeno parzialmente, un senso a un tempo sovente percepito come vuoto, caotico, incerto e disorientante.

La narrazione, e in particolare la narrazione autobiografica, è uno strumento terapeutico che integra e arricchisce il lavoro degli operatori sanitari. Si pensi, ad esempio, alle numerose esperienze di medicina narrativa nelle cure palliative e nell’assistenza ai pazienti affetti da malattie cronico-degenerative; oppure alla terapia della dignità di Harvey Max Chochinov, un intervento psicologico che aiuta il malato a soffermarsi sulle cose che per lui contano di più sul piano esistenziale e che vorrebbe fossero ricordate dalle sue persone care, per aiutarlo a produrre una testimonianza scritta da lasciare ai suoi parenti e amici.

La narrazione è anche una straordinaria risorsa nelle mani di chiunque abbia il desiderio e la motivazione di dare parola al proprio vissuto. Christine Valentine, ricercatrice dell’Università di Bath, ha mostrato come le bereavement narratives siano un modo per preservare il legame con le persone scomparse e per socializzare il dolore del lutto, affrontandolo senza tuttavia patologizzarlo.

Nella mia esperienza di lavoro nel campo del fine vita ho incontrato molte persone che hanno trovato forza e conforto nella scrittura e in altre forme di narrazione. Per alcuni il bisogno di raccontare la propria esperienza è molto forte. Nelle riunioni dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto, una delle donne ricordava come nei primi mesi si sentiva quasi soffocata dall’urgenza di parlare della malattia e della morte di suo figlio. Aveva quindi deciso di cominciare a scrivere un diario e, sulle pagine, aveva riversato le parole che premevano per uscire dalle sue labbra e che non sempre poteva pronunciare. Un uomo, invece, aveva usato la scrittura per riorganizzare la memoria di sua moglie scomparsa. Nei primi mesi, egli era attanagliato da timore di dimenticarla e, simultaneamente, faceva un’enorme fatica a ricordare: guardare le foto di lei era straziante e le uniche immagine che gli veniva spontanee erano quelle degli ultimissimi giorni in ospedale. Con sforzo, un giorno come tanti altri si era messo davanti al computer e aveva intrapreso il compito di scrivere i ricordi della vita trascorsa insieme. Gradualmente, egli era riuscito a ricontattare momenti felici, piccoli aneddoti, persino liti e discussioni finite con un abbraccio. Scrivere, inoltre, lo stimolava a “fare” delle cose: telefonare un vecchio amico per ricostruire insieme un episodio di un passato molto lontano; aprire e riordinare i cassetti con i documenti della moglie, che per mesi erano stati intoccabili tanto era doloroso il solo pensiero di avvicinarsi.

Questi due esempi sono eloquenti del ruolo terapeutico della narrazione. Quando raccontiamo si attiva un processo mentale diverso rispetto a quello del pensiero individuale, che sovente assume la forma di un monologo interiore. Raccontare, per quanto si faccia in solitudine, presuppone un atto comunicativo: c’è sempre un “altro” – un lettore, un ascoltatore, un osservatore/osservatrice – al quale “dire” qualcosa. Questo comporta la necessità di spiegare ogni passaggio per renderlo comprensibile al nostro interlocutore; obbliga a trovare le parole giuste per esprimere sensazioni ed emozioni che sovente sono confuse e soverchianti; spinge a esplorare la propria interiorità, a cercare di comprenderla, per poterla condividere con altri.

Che si tratti di storie orali, di scrittura autobiografica oppure di narrazioni che usano altri linguaggi artistici, il narrare è un movimento all’insegna dell’incontro, dell’apertura e della condivisione; un viaggio dentro il sé che, simultaneamente, avvicina all’altro, sostenendo chi soffre nel lungo processo di riconnettersi con la vita.

Voi avete mai usato la scrittura autobiografica o la narrazione in momenti di sofferenza? quale ruolo ha avuto per voi l’esperienza di raccontarvi?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/10/foto-articolo-econarrazione-e1664957899740.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-10-05 10:23:432022-10-05 10:23:44Narrare la fine, di Cristina Vargas

Elena, la Svizzera e la dignità della morte, di Marina Sozzi

3 Agosto 2022/59 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

In genere preferisco non parlare del tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, su cui ho già in alcune occasioni espresso il mio pensiero.

Ma quando leggo sui quotidiani descrizioni approssimative e imprecise delle storie delle persone che scelgono di andare in Svizzera, mi viene il desiderio di commentare. Non intendo certo commentare la scelta della signora Elena, che si è recata a Basilea con Cappato a concludere la sua vita. Non si può e non si deve giudicare le scelte delle persone, che si sentono o non si sentono di vivere la propria malattia fino alla fine. Ciascuno sceglie in base alla propria storia, alle proprie risorse, a molti altri fattori della propria vita che non sono sindacabili.

Tuttavia, quando la storia di Elena, su Repubblica o sulla Stampa, è narrata come se l’alternativa di Elena fosse morire soffocata per via del suo microcitoma, non si può tacere.

Scrive Maria Novella De Luca su Repubblica: «Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. “Mi sono trovata davanti a un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portata all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda.”»

Ora, l’alternativa al suicidio assistito, nel caso di Elena, non è la sofferenza bruta a cui fa riferimento sia lei stessa che la giornalista: “l’inferno”.

E da questo punto di vista credo sia importante che, oltre a poter scegliere – e in Italia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, prima o poi una legge sul suicidio assistito si farà- si possa scegliere sulla base di buone informazioni.

E queste informazioni non le troviamo mai, o quasi mai, sui mass media nazionali: le cure palliative permettono di non soffrire dal punto di vista fisico, e di essere sostenuti dal punto di vista umano, psicologico e spirituale. Nel caso di Elena, se il microcitoma (tumore polmonare molto aggressivo) o le metastasi le avessero provocato dei sintomi cosiddetti “refrattari” (che non si riescono a contenere con i farmaci), o se la sua angoscia di morire soffocata fosse troppo forte, ci sarebbe stata l’indicazione per una sedazione palliativa. Questa sedazione non ha nulla a che fare con il suicidio assistito, perché non abbrevia né allunga la vita, e perché diverso è l’obiettivo (nel suicidio assistito i farmaci ingeriti sono volti a provocare la morte, mentre nella sedazione palliativa viene indotta una forma di sonno profondo che azzera la coscienza e anche la sofferenza, che sia fisica o mentale).

Quindi Elena avrebbe potuto finire la sua vita nella sua casa, circondata dall’affetto dei suoi cari, con una sofferenza tenuta sotto controllo. Quindi massimo rispetto per la sua scelta, ma l’alternativa non sarebbe stata “l’inferno”. E questo è importante dirlo per tutti gli altri innumerevoli malati di tumore che devono affrontare la fine della propria vita.

Ancora Repubblica: «Elena ha registrato un video – lucido e straziante – in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa anche il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuta venire qui da sola.» Ecco, no.

Nulla da eccepire sulla libera e inappellabile scelta di Elena, ma in Italia abbiamo due ottime leggi sul fine vita (la 38 del 2010 e la 219 del 2017) che le avrebbero permesso di morire nel suo letto, tenendo la mano dei suoi familiari.

Quando si decide che il malato non se la sente più di affrontare la malattia, l’équipe propone la sedazione palliativa, e la spiega accuratamente al paziente e alla sua famiglia, così che possano prendere insieme una decisione, e prima che la sedazione venga praticata la famiglia può riunirsi per un saluto, per le ultime parole d’amore. La sedazione non è sempre irreversibile, e talvolta è possibile programmare una sedazione intermittente, che permetta ad esempio al malato di riposare ma di essere ancora presente in alcuni momenti. La sedazione palliativa è uno strumento terapeutico duttile ed efficace, e, insieme a tutti gli altri, è volto a garantire la dignità alla fine della vita. Le cure palliative hanno come priorità la dignità del malato. Troppo spesso si rivendica la dignità come se la morte programmata fosse l’unica soluzione per garantirla.

Le storie che talvolta si sentono, di persone prese in carico troppo tardi, e che hanno sofferto, sono storie che dipendono prevalentemente dalla mancanza di cultura sulle cure palliative. Mancanza di cultura dei medici, che tardano troppo ad attivare le cure palliative; e anche mancanza di cultura dei cittadini, che ignorano i loro diritti (le cure palliative sono garantite a tutti come diritto dalla legge 38). Talvolta, certo, dipendono anche dalla cattiva organizzazione delle ASL e dai loro ritardi.

Ma anche di questo siamo tutti responsabili. Perché, oltre ad invocare il suicidio assistito e l’eutanasia, dovremmo informarci meglio e conoscere le possibilità che le cure palliative offrono di affrontare con dignità, con la tutela della qualità della vita, la propria morte. E dovremmo fare una battaglia civile perché le cure palliative siano estese a tutti i malati che ne hanno bisogno, in tutti i contesti di cura.

Sono ansiosa di sapere cosa ne pensate. Grazie in anticipo per i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/08/elena-e1659522514471.webp 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-08-03 12:31:352022-08-03 12:31:35Elena, la Svizzera e la dignità della morte, di Marina Sozzi

Il valore della morte, di Marina Sozzi

5 Maggio 2022/10 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

«La storia del morire nel ventunesimo secolo è la storia di un paradosso». Milioni di persone sono sottoposte ad accanimento terapeutico negli ospedali, e le famiglie e le comunità non sono più protagoniste della morte dei loro membri, hanno perso competenza e tradizioni.

Da quando, nelle ultime generazioni, il morire è gestito dalla sanità, cure futili e inappropriate continuano ad essere praticate negli ultimi mesi, giorni e addirittura ore di vita. Si spendono, per cure futili negli ultimi mesi di vita, cifre eccessive, che non apportano alcun beneficio alle persone. In molti casi servono solo ai curanti per poter evitare di parlare di morte con i loro pazienti. Le cure palliative, che sarebbero la risposta più adeguata, non sono ancora sufficientemente accolte ed applicate nel mondo.

Ma, cosa ancora peggiore, centinaia di milioni di persone non ricevono invece le cure necessarie, muoiono per malattie che potrebbero essere guarite e non hanno neppure accesso ai farmaci antidolorifici. Il modo in cui si muore è ancora gravido di diseguaglianze, dipende dalla porzione di mondo in cui si vive, dalla situazione economica, dal genere, dall’etnia, dall’orientamento sessuale.

Da queste considerazioni prende le mosse la riflessione della Commissione Lancet sul tema della morte, pubblicata al fine di gennaio di quest’anno, che potete leggere integralmente qui.

A cosa dobbiamo tutto questo?

Secondo la Commissione il cambiamento climatico, la pandemia, la distruzione dell’ambiente, e l’atteggiamento dominante nei confronti della morte tipico dei paesi ricchi hanno un’unica e medesima origine: l’illusione di avere un controllo sulla natura, come se l’uomo non ne facesse integralmente parte.

Si tratta ora, scrive la Commissione, di riscoprire il valore della morte: sì, proprio il valore. Perché vita e morte sono saldamente intrecciate e non esisterebbe l’una senza l’altra.

Occorre modificare il modo in cui comprendiamo, esperiamo e gestiamo la morte, e per farlo occorre trasformare al contempo numerosi fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici.

La Commissione Lancet pone cinque principi di un’utopia realistica alla quale lavorerà nei prossimi anni.  Auspica cioè:

1) Che siano affrontate e superate le differenze sociali di fronte al morire e al lutto
2) Che la morte sia compresa come processo relazionale e spirituale, e non come evento biologico
3) Che ci siano per tutti reti di cura e di sostegno per il morire e per accompagnare la perdita e il lutto.
4) Che diventino comuni e correnti i discorsi sul tema della morte e della perdita
5) Che la morte sia riconosciuta come qualcosa che ha un alto valore.

Vorrei concentrarmi su questo termine, “valore”, che sembra stravagante e irritante in un’epoca come la nostra, nella quale facciamo tanta fatica ad accettare la morte, anche quando arriva in età avanzata, dopo una lunga vita soddisfacente. E che, a maggior ragione, ci appare come una terribile ingiustizia quando arriva precocemente. Viviamo in un mondo che tende a negare alla morte ogni valore. E allora in quali sensi la Commissione di Lancet fa riferimento al “valore della morte”?

Senza la morte, scrive, “ogni nascita sarebbe una tragedia”, e la civiltà sarebbe impossibile. La morte è un meccanismo omeostatico necessario alla vita: i vecchi lasciano il posto ai giovani e questo ricambio permette sia l’evoluzione sia il rinnovamento. Già Anassimandro, nell’antica Grecia, scriveva che “che principio degli esseri è l’illimitato, da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Intendendo con questo che occorre, nella dimensione limitata del tempo, lasciare il posto a coloro che vengono dopo di noi.

Inoltre, senza la morte non ci sarebbero nuove idee e non ci sarebbe il progresso. Max Planck aveva affermato che la scienza avanza non perché gli scienziati modifichino la loro opinione, ma perché c’è ricambio generazionale.

Anche i filosofi hanno riflettuto su questo. Heidegger sostenne che nessuno può morire al posto di qualcun altro, e che qualora si comprenda profondamente questo fatto, con senso di responsabilità, è possibile diventare autenticamente se stessi: anche in questo senso la morte dà valore alla vita, come consapevolezza del limite.

C’è un ultimo senso in cui la Commissione parla di valore, ed è qualcosa di molto familiare a chi opera in cure palliative: accompagnare un morente è un dono, come scrive Katherine Mannix: dando tempo, attenzione, e compassione alle persone che muoiono ci connettiamo con loro e con la nostra condivisa fragilità, con la nostra umana vulnerabilità, e comprendiamo la nostra interdipendenza, e capiamo che questo è proprio il nucleo delle relazioni umane.

Cosa pensate di questo termine, valore, attribuito dalla Commissione Lancet alla morte? Vi riconoscete in questa posizione o ritenete che sia da ripensare?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/05/Sveglia_tempo_01-e1651660581958.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-05-05 16:30:032022-05-05 16:35:38Il valore della morte, di Marina Sozzi

Le DAT alla luce del Covid, di Marina Sozzi

1 Marzo 2022/6 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Le DAT, ovvero le Disposizioni anticipate di trattamento, la cui validità giuridica è stata stabilita dalla legge 219/2017, sono un tema molto importante, che questo blog ha già trattato in passato. Ad oggi, nonostante siano passati quattro anni dall’approvazione della legge, meno dell’1% della popolazione italiana ha testato. Forse negli ultimi due anni hanno avuto un peso le difficoltà create dalla pandemia ad accedere agli uffici comunali preposti, specialmente nelle grandi città. Tuttavia, la percentuale di testatori è irrisoria.

Le persone faticano a immaginarsi in una situazione in cui non siano più in grado di decidere per sé, e spesso non sono sicuri su cosa sia opportuno scrivere su quel modulo di Disposizioni anticipate di trattamento, o non sanno a chi dare il ruolo di fiduciario.

La pandemia, certo, non ha semplificato le cose.

Alcuni avevano ben chiaro di non voler essere attaccati a ventilatori meccanici, quando pensavano che la respirazione artificiale potesse venir loro applicata a seguito di un gravissimo incidente, ad esempio, col rischio di restare in stato vegetativo permanente, come è accaduto a Eluana Englaro. Non ci aspettavamo, però, che potesse colpirci una malattia infettiva gravissima, che ha compromesso la nostra capacità di respirare, ma dalla quale vi era una possibilità di uscire guariti, perfettamente ristabiliti.

E, d’altro canto, invece, in questa epidemia di Covid, in certi casi aver testato sarebbe stato importante per salvaguardare la propria capacità di scegliere, anche nella situazione convulsa in cui versava la sanità nei momenti di diffusione più rapida del virus.

Non siamo tutti uguali, e ci sono persone, magari molto anziane, o un po’ stanche di vivere, che non avrebbero voluto finire in terapia intensiva qualora si fossero ammalati di Covid, ma solo essere accompagnate da buone cure palliative. Invece, nella maggioranza dei casi, hanno deciso i medici, e sappiamo peraltro dai loro racconti quanto sia stato difficile scegliere tra i pazienti malati di Covid che si recavano in ospedale.

Diceva una dottoressa intervistata da Open nell’aprile 2020: «All’inizio avevo paura. Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui al terremoto, a prendere una decisione al minuto». Tra cui quella più difficile: «Chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte». «Marzo è stato il mese peggiore della mia vita, lottavamo contro l’invisibile. I letti in terapia intensiva non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente settantenne, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo». Una decisione in cui ci si consultava tra colleghi, spiega la dottoressa, «ragioni, rifai i calcoli cento volte, litighi. Ma alla fine decidi».

Alcuni di noi si sono scandalizzati (a mio modo di vedere erroneamente) quando, all’inizio di marzo 2020, la SIAARTI, società scientifica degli anestesisti e dei rianimatori, ha pubblicato un documento in cui dava istruzioni ai colleghi che si trovavano di fronte a una scarsità di risorse in rapporto alla quantità di malati. Scrivevano gli intensivisti che lo squilibrio tra necessità cliniche e disponibilità effettiva delle risorse, li obbligava a utilizzare i criteri tipici della medicina delle catastrofi: «Come estensione del principio di proporzionalità delle cure, l’allocazione in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità.»

Sarebbe cambiato qualcosa se la popolazione avesse in maggioranza testato, esprimendo ad esempio le proprie preferenze riguardo alla ventilazione meccanica? Si sarebbe potuto tener conto di quelle disposizioni, sapendo che erano state scritte in una situazione molto diversa, nella quale le malattie letali erano prevalentemente croniche, e la morte come evento improvviso ce la si sarebbe potuta aspettare soprattutto come conseguenza di gravi incidenti?

Credo che sia giunto il momento di ripensare alle DAT, alla luce del Covid, per fare una campagna rilevante, nazionale, di divulgazione. In questi mesi passati l’ha fatta VIDAS, fondazione milanese che si occupa di cure palliative, che ha promosso l’idea di testare con spot su diversi canali, tv, radio, stampa e digitale, che sono stati fruiti da oltre 23 milioni di utenti. Circa 6.000 persone hanno voluto approfondire, e scaricato la guida presente sul sito VIDAS e il modulo per la stesura delle proprie DAT, messo a punto con la collaborazione della bioeticista Patrizia Borsellino. Lo slogan è stato: “Scelgo adesso, perché posso”. La linea telefonica di prima informazione gestita da volontari ha ricevuto tra ottobre e dicembre decine di richieste da parte di persone interessate e desiderose di approfondire. C’è stato anche un servizio di sportello che ha accompagnato alla redazione del proprio biotestamento, valorizzato come un atto di libertà e autodeterminazione. Sarà poi interessante, a campagna conclusa, capire quanti sono stati i testatori in più, e se nell’area del milanese, dove è stato possibile accedere allo sportello di consulenza, ci sia stato uno spostamento interessante delle percentuali di persone che hanno lasciato le proprie disposizioni.

Se dovesse essere così, si renderebbe evidente che occorre una consulenza per indurre le persone a testare, come dimostrano anche i casi dei paesi dove una campagna nazionale seria è stata fatta, come il Canada (12% della popolazione ha scritto il proprio living will) e gli Stati Uniti (25%).

Ma soprattutto, ritengo che il Covid debba indurci a lasciare le nostre volontà dando non tanto precise indicazioni su ciò che si accetta e ciò che si rifiuta, quanto fornendo la nostra visione filosofica della vita e della morte, delle limitazioni della nostra salute che siamo in grado di accettare, e di quelle che invece renderebbero la nostra esistenza non più meritevole per noi di essere vissuta. E per arrivare a questa visione, occorre che ci vengano poste le giuste domande, che ci facciano riflettere, andando in profondità, sul nostro rapporto con la vita e con la morte.

Che cosa ne pensate? Avete riflettuto sulle DAT durante la pandemia? Secondo voi un medico avrebbe potuto, o dovuto, tener conto del testamento biologico eventualmente presente nel contesto dell’epidemia di Covid-19?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/02/will1-960x720-1-e1646046111671.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-03-01 09:00:002022-02-28 12:36:50Le DAT alla luce del Covid, di Marina Sozzi

C’è bisogno di cure palliative in RSA, di Marina Sozzi

22 Gennaio 2022/8 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Altre volte su questo blog ci siamo chiesti come muoiano i nostri anziani, soprattutto quando sono ricoverati in RSA (Residenze sanitarie assistenziali). O meglio, quando abbiano voluto o dovuto eleggere come loro “casa” una di queste strutture, perché non più del tutto autosufficienti o perché affetti da una forma di demenza.

Ora, negli ultimi mesi ho avuto modo di seguire (perché coordinato da me) un progetto di formazione in cure palliative in quattro RSA dell’area metropolitana torinese. Si è trattato di un progetto simile al progetto VELA, portato avanti già anni fa da Franco Toscani in Lombardia.

Come sono innanzitutto organizzate le RSA?

Nelle Residenze ci sono in genere moltissimi OSS (operatori sociosanitari, che fanno un corso biennale per prepararsi alla professione), alcuni infermieri, pochissimi o nessun medico (talvolta, a parte il direttore sanitario, i medici di riferimento sono solo i medici di medicina generale che raramente, o solo per ragioni di emergenza, si recano in struttura a vedere i loro pazienti). Gli OSS sono circa da 4 a 7 volte più numerosi degli infermieri. Non dappertutto è previsto uno psicologo nell’organico, o qualche fisioterapista.

Gli OSS svolgono quindi buona parte del lavoro di cura, sono in maggioranza stranieri, sono pagati poco e in genere non prendono parte alle decisioni di carattere sanitario che riguardano i pazienti. Questo accade per ragioni gerarchiche, nonostante il fatto che gli OSS siano le figure maggiormente a contatto con i residenti, e che abbiano quindi un’idea piuttosto precisa delle condizioni di salute di ciascuno e del loro eventuale peggioramento.

In questa situazione cosa accade quando un paziente si aggrava, perde autonomia, comincia a mangiare meno, a non alzarsi dal letto? Raramente i familiari vengono avvertiti, e preparati alla realtà del declino, e all’avvicinamento del loro congiunto alla fine della vita.

Accade ancora troppo frequentemente che, ad esempio, quando una persona non riesce più a deglutire (è un decorso frequente nelle forme di demenza) venga inviata in ospedale e si passi all’alimentazione artificiale, rischiando di aggiungere sofferenza a sofferenza. Le evidenze scientifiche dicono che in quei casi l’alimentazione artificiale non contribuisce al benessere della persona (quindi non migliora la qualità della sua vita) e neppure aumenta la quantità di vita residua. Inviando al Pronto Soccorso, tuttavia, si rimanda comunque il “problema” (e la responsabilità) ad altri, perché nessuno in RSA è pronto a prendersela.

“E’ la famiglia che ci chiede di mandare il parente in Pronto soccorso”, dicono sovente gli operatori. E certamente è più probabile che ci sia questa richiesta in un contesto in cui le famiglie non sono state adeguatamente preparate a quello che sarebbe accaduto. Se avessero saputo per tempo che l’evoluzione della demenza avrebbe portato il loro caro a non poter più mangiare (e che quello sarebbe stato anche un segno dell’avvicinarsi della fine), forse avrebbero potuto accettarlo ed evitare inutili e gravosi spostamenti e sofferenze a chi sta morendo.

L’altro grave esempio delle conseguenze di una preparazione carente delle équipe curanti in RSA è la sottovalutazione del dolore (e quindi il suo mancato trattamento) nelle persone con decadimento cognitivo, che non sanno quindi spiegare dove hanno male e come questo dolore si presenti. È frequente che vengano fraintesi l’agitazione, i lamenti, il pianto, da parte di operatori che interpretano questi sintomi come dovuti al declino cognitivo, mentre sovente sono segni di un dolore non controllato.

Nelle RSA la permanenza media degli ospiti è di poco più di 12 mesi, ed è chiaro che le persone che vi abitano si trovano nell’ultimo miglio della loro vita. Alcuni vivono in RSA meno, molto meno di 12 mesi. Come è possibile quindi che non si rifletta sull’esigenza di garantire una buona qualità della fine della vita in questi luoghi (dove tutti i residenti, o quasi tutti, concludono in effetti la loro vita?)

Ciò che manca, insomma, nelle strutture per anziani, è la sensibilità palliativa, l’approccio palliativo, l’attenzione per la sofferenza e il disagio, le competenze comunicative con gli ospiti e con le famiglie.

Come fare dunque a sollecitare questa attenzione e questo approccio in tutti coloro che lavorano in queste strutture, così da garantire una vita e una morte dignitosa a chi ci abita?

La prima cosa da insegnare al personale è a porsi quella che è stata definita la “domanda sorprendente”, che consiste nel chiedersi, per ogni paziente, o ospite (nel caso delle RSA): “Sarei sorpreso se questa persona morisse nel giro di sei mesi o un anno?”. Se la risposta è “No, non sarei sorpreso”, quello è già il momento per dare inizio a un approccio palliativo.

Le prossime sfide, per le cure palliative (che avranno finalmente una scuola di specialità per i medici), sono: 1) ampliare i luoghi di cura in cui saranno disponibili cure palliative (quindi anche gli ospedali e, appunto, le RSA); e 2) fare in modo che le cure palliative siano applicabili a ogni patologia (e gli anziani ricoverati in RSA spesso sono persone molto fragili, portatrici di più di una patologia cronica e degenerativa).

Certamente, formare gli operatori delle RSA è di primaria importanza, sia per le persone che vi risiedono, sia per i loro familiari, spesso carichi di sensi di colpa per non riuscire a curare a casa il loro caro; sia inoltre per i curanti, affaticati sia fisicamente sia emotivamente, a maggior ragione con il Covid (e infatti un veloce turn over degli operatori in queste strutture è usuale).

Ma occorre anche che i decisori (come si dice con un brutto termine) richiedano alle RSA la competenza già acquisita in cure palliative di base per accreditare le strutture. In questo modo l’adeguata formazione non sarebbe iniziativa singola di alcuni direttori sanitari particolarmente sensibili e lungimiranti, ma la norma.

Avete esperienze che riguardano la cura in RSA? Cosa pensate dell’auspicio che vi sia una formazione alle cure palliative in queste strutture per anziani?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/01/CurePalliative-e1642761170837.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-01-22 09:00:002022-01-21 11:44:03C’è bisogno di cure palliative in RSA, di Marina Sozzi

La Death Education tra i carabinieri, di Davide Sisto

14 Gennaio 2022/2 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

A novembre 2021 sono stato invitato a Viareggio, in qualità di tanatologo, al convegno “Suicidi in divisa. Analisi, gestione e prevenzione del fenomeno. Aspetti civili e penali”, organizzato dal Nuovo Sindacato Carabinieri (NSC). L’urgenza di questo convegno nasceva dal fatto che, a partire dal 1° gennaio, si erano suicidati nel corso dell’anno appena passato circa cinquanta esponenti delle forze dell’ordine: sette guardie giurate, sei appartenenti alla Polizia Locale, cinque alla Polizia Penitenziaria, quattro alla Polizia di Stato, quattro alla Guardia di Finanza, due alla Marina Militare e ben ventidue esponenti dell’Arma dei Carabinieri. Pertanto, il NSC ha voluto provare ad analizzare le molteplici ragioni di questo drammatico fenomeno con l’ausilio di associazioni che si occupano in maniera specifica del problema, quindi di psicologi, sociologi, politici, giornalisti, ecc. Particolare attenzione è stata dedicata alla presenza di Sergio De Caprio, meglio conosciuto come Capitano Ultimo, noto per aver arrestato nel 1993 Totò Riina.

All’interno di questo contesto assai variegato ho ritenuto preziosa la possibilità di portare il mio contributo in quanto studioso di tanatologia e Death Education. Ora, occorre innanzitutto fare una premessa doverosa: il tema dei suicidi in divisa implica un necessario rimando a un insieme di fattori psicologici, familiari, sociali, culturali e ambientali che ineriscono allo specifico ambito lavorativo di cui parliamo. Di conseguenza, non è compito di un professionista esterno entrare – con presunzione di conoscenza – all’interno di quelle dinamiche gerarchiche, disciplinari, relazionali e, a volte, giudiziarie che caratterizzano la quotidianità di chi presta servizio nelle forze dell’ordine. E che, di fatto, sono a fondamento – quando risultano particolarmente stressanti o ingiuste – della scelta estrema di togliersi la vita.

Detto questo, il contributo della Death Education può essere fecondo, in primo luogo, riguardo alla possibilità di acquisire chiara consapevolezza delle conseguenze negative della rimozione sociale e culturale della morte. Prendere coscienza della necessità di discutere senza pudore o imbarazzo della morte e della nostra costitutiva vulnerabilità esistenziale significa, infatti, offrire uno strumento importante per ridimensionare quei meccanismi tossici che, contraddistinguendo i legami gerarchici e il mito della mascolinità, provocano un senso di isolamento nel singolo lavoratore. Spesso, in altre parole, un certo superomismo malato può essere ridimensionato anche tenendo conto della democratica finitezza esistenziale che non esclude nessuno e che è alla base della rivalutazione qualitativa dei rapporti interpersonali.

In secondo luogo, la Death Education può rappresentare un punto di partenza importante per rivedere il rapporto tra la società e il tema del suicidio, il quale risulta essere ancora oggi il non plus ultra dei tabù. Di suicidio si parla il meno possibile, spesso nemmeno lo si menziona quando ha luogo. Si tende, generalmente, ad associare la scelta del suicidio all’effetto di una debolezza psicologica che, prima, porta all’isolamento lavorativo del singolo individuo, soprattutto in ambienti di lavoro in cui la forza – mentale e fisica – è ritenuta imprescindibile. Poi, una volta avvenuto il suicidio, spinge a concentrarsi sui sensi di colpa, sulla rabbia nei confronti del suicida, sull’insieme di cose che si potevano fare e non si sono fatte. Quindi, porta l’attenzione più sugli altri che su chi ha ritenuto che vivere non avesse più senso. Un’attenzione precisa dedicata alle evoluzioni storiche e sociali del suicidio, al legame tra il suicidio e la disposizione arbitraria della propria vita, al confine labile tra l’opportuna prevenzione e l’inopportuna – invece – patologizzazione del gesto suicidario richiedono l’ausilio di tutti quei professionisti che si occupano di tanatologia e di Death Education e che possono fornire anche solo degli spunti per districarsi nella complessità delle questioni.

In altre parole, ritengo sia doveroso riuscire a estendere la presenza dei tanatologi in tutti quei campi lavorativi in cui è basilare una riflessione attenta sul nostro legame con il fine vita. Così come è importante che, all’interno della nostra società, ci si cominci ad accorgere di questo peculiare campo di studi interdisciplinari, cogliendo il filo rosso che lega molteplici nevrosi presenti nei nostri rapporti interpersonali alla decennale rimozione sociale e culturale della morte dal nostro quotidiano.

Voi cosa ne pensate? Ritenete utile la presenza dei percorsi di Death Education in più ambiti lavorativi della nostra società? Come sempre, attendiamo commenti e riflessioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/01/suicidi-tra-le-forze-di-polizia-e1642072962451.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-01-14 09:00:002022-01-13 12:26:50La Death Education tra i carabinieri, di Davide Sisto
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